FRONTIERE

Cappella Sistina, non solo arte sublime ma una complessa strategia politica a lungo termine

Il 29 maggio 1453 le truppe del sultano Maometto II conquistano Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente, generando un’onda d’urto che sconvolge e inorridisce tutta  l’Europa. Da quel momento in poi, appare chiaro che gli ottomani, dominatori di una larga porzione dei Balcani, avrebbero presto rappresentato una minaccia diretta anche per l’Italia e il papato. Il problema principale era che Maometto II pretendeva di essere considerato il legittimo erede dell’Impero romano, e questa rivendicazione era apparsa congrua a molti intellettuali del tempo. Un’autorevole tradizione culturale riteneva infatti fondate le sue richieste, dal momento che chi conquistava la seconda Roma poteva dirsi erede dei Cesari. Dunque per il papa di Roma Sisto IV, che rivendicava a sé quella tradizione, la questione era molto seria; se le minacce territoriali impensierivano tutti i principi d’Europa, che organizzavano la difesa dei propri confini con gli eserciti, lui doveva rintuzzare una minaccia più insidiosa: quella di illegittimità della sua guida spirituale.
Il papa, appartenente all’antica famiglia ligure dei Della Rovere, decide di rispondere con un’impresa artistica “che si trasformò in una sorta di manifesto universale della teologia cristiana e della legittimità papale: la decorazione della Cappella Sistina, la più importante cappella della cristianità che aveva fatto appena ricostruire e che a partire dall’anno successivo, il 1481, affidò alla decorazione dei migliori pittori d’Italia. Come ci racconta Antonio Forcellino nel suo ultimo saggio, uno dei capolavori artistici più noti e amati al mondo, nasce dalla necessità del papato di riaffermare la propria legittimità morale e culturale, di fronte alle pretese del sultano. E la risposta andava fornita molto velocemente, visto che nel luglio del 1480 una flotta musulmana aveva assediato e conquistato Otranto e, dopo la vittoria, aveva compiuti atroci massacri tra la popolazione.
Forcellino, architetto, noto restauratore e storico dell’arte, ritiene giustamente che per analizzare i grandi capolavori questi vadano inseriti rigorosamente nel loro contesto e fatti dialogare con gli eventi storici. Il fervore quasi parossistico con cui vennero portati avanti i lavori all’interno della cappella che prende il nome da Sisto IV, si può capire soltanto conoscendo gli eventi drammatici che stavano avvenendo in quegli anni. Sia la caduta di Costantinopoli che la conquista di Otranto furono enormemente favoriti dal fatto che i principati europei avevano puntato a difendere i loro interessi particolari, spesso facendo accordi separati con i turchi, favorendo quindi la loro strategia di espansione sul suolo europeo.

Parte il grande progetto

Avendo molta fretta di vedere il lavoro compiuto, Sisto IV si rivolge non a un singolo artista, ma a un vero e proprio consorzio e chiama ad affrescare le pareti della cappella quattro tra gli artisti più in vista del momento: Botticelli, Perugino, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli che, a loro volta, faranno intervenire anche il Pinturicchio e Signorelli. Nel maggio del 1481 muore Maometto II, liberando per il momento la chiesa dalla minaccia di un’invasione, ma dando ulteriore impulso alla realizzazione degli affreschi prima che gli ottomani si riorganizzassero. Gli affreschi devono celebrare il papato come legittimo successore di Cristo e Roma come naturale erede delle glorie dell’Impero romano. In questo modo, la Cappella Sistina diventa non soltanto il centro della spiritualità cristiana ma anche dell’arte moderna perché “racconta la storia di un’arte che si emancipa dalle regole quattrocentesche per avviarsi nella dimensione moderna del prodotto di genio. L’arte inizia a essere riconosciuta come prodotto di puro ingegno e si affranca dal retaggio medievale ancora tutto fondato sulla preziosità dei materiali e sulla ripetitività dei codici formali. Si apre l’orizzonte infinito del genio creativo che proprio in quella cappella affermerà la sua grandezza attraverso l’opera di Michelangelo Buonarroti e di Raffaello Sanzio”.
La compresenza di artisti diversi, ognuno aiutato dai propri collaboratori, funziona alla perfezione e il lavoro appare stilisticamente coerente per l’utilizzo di un espediente geniale, che è quello di allineare l’orizzonte in tutte le scene dipinte, in modo che il “il visitatore che percorre la cappella ha l’impressione che, al di là della galleria classica, si apra un unico paesaggio abitato da una umanità intenta a rivivere le storie che i consiglieri del papa avevano deciso di ricordare ai cristiani”. Questa soluzione unitaria è resa ancora più credibile dalla scelta dei colori e della scala dei personaggi messi in scena e dalla loro gestualità: è come se obbedissero tutti a una rigorosa regia teatrale, muovendosi con identico garbo e decorose attitudini sul limite della scena più vicina allo spettatore. I personaggi sono rappresentati tutti alla stessa scala, di poco superiore a quella reale del visitatore, e sono in numero quasi costante in tutte le scene.
La città che fa da sfondo è la Roma imperiale, ma anche la Roma edificata da Sisto IV. “Era un messaggio chiaro agli ottomani e ai loro sostenitori italiani. L’affermazione della centralità visiva di Roma sabotava il tentativo di Maometto II di legare agli ottomani, con la conquista di Costantinopoli, l’eredità imperiale dei Cesari”. Non c’è quindi da meravigliarsi che uno dei riquadri principali, la Consegna delle chiavi a San Pietro, affidato al Perugino, sia collocato nel punto più centrale della cappella proprio perché il gesto di Cristo costituiva il fondamento legittimo del potere papale, sia spirituale che temporale. “Quasi tutto il senso della decorazione della Cappella Sistina era racchiuso in questa scena dove l’artista mette a frutto il meglio della sua ricerca stilistica, il contrappunto dei personaggi, la grazia dei gesti e la dolcezza delle espressioni. Tutto questo è inquadrato in una grandiosità commovente, nella quale sembra che la natura celebri la santità del rito insieme all’ingegno umano che ha saputo immaginare quelle architetture così perfette nella loro proporzionalità geometrica”.

Perugino, La consegna delle chiavi a San Pietro. L’affresco, che illustra l’aspetto fondante della chiesa di Roma, è collocato vicino all’ingresso del visitatore, in una importante posizione centrale.

Il genio di Michelangelo all’opera

Il papa muore nell’agosto del 1484 ma, contrariamente a quello che si potrebbe temere, i lavori vanno avanti lo stesso perché nel 1503 a occupare il soglio di Pietro arriva il nipote di Sisto IV, Giuliano Della Rovere, che prenderà il nome di Giulio II. Giuliano ha un carattere molto più combattivo di quello di suo zio e, inoltre, è una persona colta con un gusto raffinato per l’arte e incarna quindi il personaggio ideale per portare a compimento l’opera. Giulio II è animato da un grande disegno politico: liberare lo Stato della Chiesa dalle prepotenze dei piccoli principi italiani, servendosi del sostegno dei principi stranieri, ma elaborando una strategia per affrancarsi anche da loro. Il nuovo papa riconosce immediatamente la genialità di Michelangelo e decide di arruolarlo nella sua impresa, affidandogli un ruolo centrale e trasformandolo in un alter ego, in grado di “comprenderne le passioni e di tradurle in immagini, instaurando una relazione nuova tra committente e artista che avrebbe conferito al secondo un ruolo politico pari a quello di un ministro. Per i papi precedenti, gli artisti erano stati poco più che artigiani capaci di produrre oggetti raffinati di cui si servivano saltuariamente. Per Giulio II, Michelangelo diventò un alleato politico di cui non poté più fare a meno”.
Fino a quel momento, Michelangelo aveva lavorato soltanto come scultore, avendo realizzato un unico dipinto, il famosissimo Tondo Doni, ma questo non impedì al papa di chiedergli l’immane compito di affrescare l’enorme volta della cappella perché il cielo stellato, realizzato anni prima da Pier Matteo d’Amelia, appariva povero e inadeguato a celebrare l’idea eroica di papato che Giulio II aveva in mente. I temi degli affreschi vengono scelti da Michelangelo, insieme al pontefice e al suo principale consigliere teologico, Egidio da Viterbo, con lo scopo di definire l’identità cristiana come unica legittima erede della storia. Ma, a differenza di suo zio Sisto IV, che operava sotto la pressione dell’invasione turca, “Giulio II si sentiva meno minacciato dai turchi e molto di più dai cardinali che gli sedevano a fianco nel concistoro. Proprio da alcuni cardinali suoi oppositori erano state mosse e diffuse delle critiche strumentali al suo modo di interpretare il magistero papale, al punto che una parte del collegio cardinalizio stava manovrando in accordo con il re di Francia per aprire un concilio universale scismatico e deporlo dal seggio di Pietro”.
I disegni dei nemici di Giulio II falliscono e quindi egli può tornare a occuparsi dell’aspetto concettuale della Cappella Sistina. Il progetto implicava la realizzazione di quanto di buono e giusto l’uomo avesse realizzato nelle terre conosciute di Oriente e Occidente. “Tutto veniva integrato e assimilato, inclusa la filosofia dei grandi sapienti che veniva a confermare l’unica vera religione e la grandezza della Chiesa di Roma che accoglieva l’eredità del passato per farla fiorire nella nuova età dell’oro, governata da Giulio II, discendente legittimo di Pietro attraverso quella galleria di ritratti papali allineati proprio sotto le lunette con i progenitori di Cristo”. Certamente Michelangelo, divorato dalla propria passione e ambizione artistica, era la persona giusta per un tale visionario progetto e, per realizzarlo, opera una vera e propria rivoluzione narrativa. Scompaiono le citazioni archeologiche, i broccati raffinati, l’oro per lumeggiare fronde di alberi e vestiti preziosi che si potevano ammirare sui riquadri delle pareti. “Michelangelo mette in scena quello che sarà il protagonista della sua pittura nei cinquant’anni successivi: il corpo umano, nudo, atletico, espressivo e perfettamente articolato nello spazio”.

Michelangelo e Raffaello, opposti e complementari

Mentre Michelangelo lavora da solo ad affrescare la volta della Sistina, Raffaello riceve l’incarico di decorare gli appartamenti pontifici, usando questa occasione per dar vita a un progetto che puntasse a far rinascere la sapienza e la cultura antica, non soltanto in termini figurativi ma anche intellettuali. L’esempio più tangibile di questo proposito, sostenuto anche da un circolo di dotti e studiosi che includeva Baldassarre Castiglione, Andrea Navagero, Agostino Beazzano, Pietro Bembo, Fabio Calvo e diversi altri, furono le decorazioni della Stanza della Segnatura. Secondo Antonio Forcellino, la Scuola di Atene non sarebbe altro che “il manifesto visibile di una tradizione sapienziale che arrivava senza interruzione dai padri fondatori della filosofia moderna, Aristotele e Platone, fino ai personaggi della Roma contemporanea, tra i quali spiccavano lo stesso Raffaello e Michelangelo, Bramante, fra’ Giocondo e altri protagonisti di quegli anni: tutti, con il proprio talento e la propria sapienza, testimoniavano come la legittima erede di quella tradizione fosse proprio la Roma cristiana governata da Giulio e poi da Leone”.

Raffaello, presunto autoritratto (1506 circa), Galleria degli Uffizi, Firenze. Con Raffaello si può dire definitivamente conclusa la transizione del mestiere del pittore in un’attività principalmente intellettuale.

Raramente si possono incontrare artisti così diversi come Michelangelo e Raffaello, separati da aspetto fisico, sensibilità psicologica, capacità tecniche, gusti estetici, modus operandi, relazioni sociali, longevità. Eppure, entrambi hanno lasciato un segno indelebile che ha cambiato per sempre la storia dell’arte e anche il rapporto tra artista e società. Michelangelo arrivò a trattare da pari i grandi della terra, mentre Raffaello contribuì in modo determinante a far nascere la figura di un nuovo artista, non più mero esecutore materiale di opere raffinate, come avrebbe potuto fare un qualunque artigiano, ma ideatore di opere concettuali, che potevano poi essere portate a termine da collaboratori, una volta che il maestro avesse fissato i criteri fondamentali. Forcellino ritiene che Raffaello abbia modificato la natura stessa del dipingere, avvicinandola a quella dell’architettura. “Le estreme conseguenze di questo presupposto saranno tratte due secoli dopo da Canova che proprio alla scultura, un’arte legata strettamente alla fatica fisica e all’abilità manuale, applicherà gli stessi principi di Raffaello, limitandosi a creare il modello per lasciare ad altri l’esecuzione materiale dell’opera. Ma a quella data il cantiere dei grandi artisti artigiani del Quattrocento era ormai solo un lontano ricordo, messo in ombra proprio da Raffaello, ritenuto il vero principio della pittura moderna”.
Uno dei pregi del saggio, oltre alla scorrevole leggibilità, è quello di rifuggire rigorosamente da quel tipo di linguaggio specialistico, usato talvolta dagli storici dell’arte, che si rivolgono in modo astruso ed esoterico ai propri pari per far rifulgere, non la grandezza dell’opera che stanno esaminando, ma il proprio ego inarrivabile. Il testo è corredato da un buon apparato iconografico che rende agevole la comprensione delle tematiche presentate.
Antonio Forcellino
La Cappella Sistina
Racconto di un capolavoro
Laterza, pp 208, 24 euro
di Galliano Maria Speri

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