di Romina D’Ascanio e Antonio Mancini

Negli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale l’interesse per un piccolo Paese dell’estrema Asia orientale, le cui notizie sembrano riportate principalmente per suscitare ilarità, piuttosto che per ottemperare al necessario dovere di cronaca; non a caso diverse agenzie che rasentano il ridicolo, successivamente vengono clamorosamente smentite.

Stiamo parlando di quella che comunemente viene chiamata “Corea del Nord”, ufficialmente “Repubblica Democratica Popolare di Corea”.
Per comprendere quali siano gli ostacoli incontrati lungo il processo di pacificazione tra di essa e la Corea “gemella” del Sud, e quali siano le reali intenzioni/preoccupazioni di tutti i Paesi coinvolti in tale vicenda, è opportuno inquadrare la situazione geopolitica, a partire dalla guerra di Corea del 1950.
Ancor prima però sono necessarie delle considerazioni sulla posizione geografica della penisola coreana. Guardandola attentamente, con gli occhi di un coreano, sembra quasi una riproposizione, in diversa forma, della penisola italiana, collegata al continente dal confine settentrionale, e bagnata dal mare sui tre lati rimanenti, assumendo di fatto una grande importanza dal punto di vista strategico. Lo stesso lembo di terra, visto con gli occhi di un giapponese, sembra quasi rappresentare una minaccia per il proprio spazio vitale, in quanto tende effettivamente a proiettarsi all’interno della sfera d’influenza nipponica. A sua volta, vista con gli occhi di un cinese, la penisola coreane sembra quasi la naturale prosecuzione della lunga costa del mar Giallo; una baia sulla quale affacciano 3 capitali (Pechino, Pyongyang, Seul), e che per questo assume di fatto una posizione strategica notevole per lo sviluppo commerciale, nonché per il controllo “militare” della zona.
La pace della penisola viene interrotta dai giapponesi nel 1895, quando con la loro strategia di occupazione militare si spingono fino alla manciuria cinese. Dopo decenni di occupazione, nella metà del 900, le politiche imperialiste nipponiche giungono al capolinea, dando il via al riscatto del popolo coreano. Dunque nel 1950 abbiamo una situazione paradossale: due Coree libere ma contrapposte tra loro, ovvero a nord una di stampo socialista, a sud una d’espressione occidentale. Questo di fatto diventa il nuovo campo di battaglia della guerra fredda che oramai sta cominciando a scuotere e terrorizzare il mondo. Il 15 Giugno dello stesso anno, l’esercito del nord, avvalendosi anche dell’accordo di Yalta, attacca il sud. Dopo neanche tre mesi l’esercito sudcoreano è costretto a rifugiarsi nella famosa “sacca di Pusan”, un lembo di terra strettissimo nell’estremo sud orientale . Per circa 2 mesi il mondo osserva la situazione ed è convinto che a breve la resistenza cadrà, e l’esercito socialista controllerà l’intera penisola. A questo punto accade l’imponderabile: gli Stati Uniti d’America, scendono in campo, ed attraverso l’azione d’attacco del generale MacArthur conquistano in maniera sorprendente la parte meridionale della penisola. Dopo una fase di stallo lungo la linea immaginaria del 38° parallelo, l’esercito americano parte al contrattacco e sconfina con reparti anfibi nel territorio settentrionale spingendosi fino alle coste del fiume Yalu. Una volta giunti al confine con la Cina, entra in gioco la potenza bellica di centinaia di migliaia di cosiddetti “volontari cinesi”, che senza molto fragore si erano da tempo appostati lungo il confine, riportando così nel giro di poche settimane il fronte di guerra nuovamente a Seul, dove vi resta per molto tempo. Dopo uno stillicidio, prima militare, con la perdita numerose vite umane, poi diplomatico, con innumerevoli incontri diplomatici che hanno portato al nulla, si giunge all’armistizio del Luglio 1953, che di fatto mantiene sino ad oggi in piedi la difficile convivenza tra le due Coree; ed il cui rapporto è reso ancor più teso per via delle ingerenze e dell’influenza dei Paesi esteri intervenuti durante il conflitto.
A livello politico, l’immaginario collettivo rappresenta generalmente lo Stato settentrionale come una dittatura comunista cattiva, spietata, mentre quello del Sud come un paradiso di democrazia. Ma a partire dall’analisi della situazione post-armistizio, si possono fare delle considerazioni esplicative. Nella DPRK (dall’inglese Democratic People’s Republic of Korea) si è istituito un Governo totalitario di stampo socialista, capeggiato dal capo della rivoluzione e padre della Patria Kim Il Sung, basato sulla dottrina dello Judche, della fiducia in se stessi. Il sogno nordcoreano è quello di creare la nazione paradiso con la sola forza del popolo. In Corea del Sud, si instaura il governo di Syngman Ree legittimato dalle forze di occupazione americane, il quale in verità aveva assunto poteri dittatoriali ben prima dello scoppio della tensione con la Corea sorella/nemica.
Nella DPRK col passare del tempo si instaura una leadership familistica, con il tramandarsi del potere dal padre Kim Il Sung, al figlio Kim Jong Il, fino a giungere al nipote Kim Jong Un. Sebbene in molti considerino una farsa le elezioni in RDPK, messe in atto principalmente come strumento di controllo sociale, c’è da rimarcare parimenti l’esistenza di 3 diversi partiti politici, uno dei quali di ispirazione scintoista, quindi ben distinta dall’accezione strettamente politica.
In Corea del Sud invece si sono susseguite ben sei repubbliche, alcune delle quali hanno fatto della repressione il mezzo principale per il mantenimento del potere, e alcune delle quali sono cominciate con dei veri e propri colpi di stato militari. Il primo presidente civile, con passato non militare, è Kim Young-sam vincitore delle elezioni del 1993. Solo a partire da queste si sono avuti dei veri passi in avanti nel cammino verso la pacificazione, ed ancor più nel 1998 con la vittoria di Kim Dae-jung, premio nobel per la pace nel 2000, proprio per le importanti iniziative a favore della conclusione della guerra di Corea, attraverso la politica arcobaleno il cui obiettivo principale era proprio la pacificazione delle due Coree.
Negli anni 90 si sono compiuti i passi più importanti nel percorso di pace, questo grazie anche all’impegno del presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton, intenzionato a sanare tutte le controversie in politica internazionale. E la pace in questi anni è davvero vicina, finché l’amministrazione Bush, con l’inserimento della Repubblica Democratica Popolare di Corea nella lista dei 4 paesi canaglia, vanifica i risultati diplomatici ottenuti negli anni precedenti.
Anche dal punto di vista economico si tende sempre a contrapporre l’economia sudcoreana di stampo occidentale a quella povera del Nord Corea. Quest’ultima, va ricordato, non è di esclusivo stampo comunista, bensì è basata su una filosofia denominata “Juche”, dell’autosufficienza, secondo cui il popolo coreano deve essere artefice del proprio destino. Con ciò si ha l’obiettivo di responsabilizzare i cittadini stessi nella costruzione del paese, visto nelle aspirazioni di tutti come la “nazione-paradiso”. Negli ultimi anni però, c’è stata un’apertura importante verso il mondo esterno, basti pensare che ultimamente ad esempio la Cina ha investito 2 miliardi di dollari nella zona di Rason, e che nel 2011 tutto il Paese ha visto un incremento del 4,2% della produzione industriale e del 7,2% di quella agricola. E’ innegabile che col passare del tempo il divario tra le due economie sia aumentato considerevolmente, ma questo aspetto ha delle cause specifiche. Al di là dell’inapplicabilità pratica della teoria dello Juche, ad aggravare la situazione ci sono delle concause che risalgono addirittura alla guerra di Corea. A molti è nota la grave carestia degli anni novanta patita dalla RDPK, ma a pochi forse è nota una delle cause principali di essa. Tornando al conflitto degli anni 50, è necessario ricordare come la quasi totalità delle foreste nord coreane siano state distrutte dai bombardamenti al napalm effettuati dagli aerei americani. Delle foreste secolari, è evidente, non possono ricrescere in mezzo secolo, per cui dopo una serie di piogge insistenti, i versanti delle colline non hanno retto, ed il fango ha allagato moltissime risaie, mandano alla rovina interi raccolti. A ciò va aggiunto che, a differenza dei continui ed ingenti aiuti economici marchiati stelle e strisce ricevuti in maniera costante dalla Corea del Sud, la Repubblica Democratica Popolare di Corea ha visto diminuire sempre più l’invio di risorse dai Paesi “amici”, ed addirittura annullati in toto dall’Unione Sovietica dopo la dissoluzione della stessa.
Nel periodo di attuazione della “politica arcobaleno”, dal punto di vista economico (e non solo) si compiono dei passi in avanti notevoli nei rapporti tra le due coree. Tanto per cominciare nel 2000 vi è il primo incontro storico a Pyongyang tra il presidente della repubblica sudcoreana Kim Dae-Jung ed il leader della DPRK Kim Jong Il. In tale incontro cominciano i tentativi di alleggerimento delle ingerenze nipponiche e americane sulla parte sud della penisola; in onore di tali accordi ed in segno di fratellanza si stabilisce l’invio di risorse umanitarie dalla parte sud a quella nord della penisola. Anche nel 2007 con l’elezione di Roh Moo-hyun continua la politica arcobaleno, grazie alla quale in un secondo incontro avvenuto nell’Ottobre del 2007 si firma un accordo di 8 punti tra cui è prevista l’intensificazione della collaborazione tra i due Paesi nella zona industriale di Kaesong.
Negli anni successivi, con l’avvento di Lee Myung-bak come presidente della Corea del Sud e dell’inasprirsi delle azioni militari da ambo le parti, la politica arcobaleno è terminata; malgrado ciò però sono rimasti in piedi alcuni rapporti commerciali oltre che il programma degli incontri dei familiari separati dalla linea di demarcazione del 38° parallelo.
Concludendo la lunga analisi sulla travagliata storia coreana, giunge il momento di trarre le somme sulle reali intenzioni dei protagonisti di tale vicenda sul processo di pacificazione. Pare evidente che gli Stati Uniti d’America, a parte l’amministrazione Clinton, abbiano ostacolato diverse volte la risoluzione pacifica della controversia, che vede le due Coree tecnicamente ancora in guerra, in quanto quello del 1953 non è un vero e proprio trattato di pace, bensì un armistizio. Risulta difficile da lasciarsi sfuggire la mancata volontà da parte americana del ritiro delle truppe e delle testate nucleari dal suolo sudcoreano, rappresentando di fatto l’ostacolo principale verso la pace. Ciò è avvenuto tra l’atro in seguito all’abrogazione unilaterale dell’articolo 13d dell’armistizio. Esso prevedeva l’introduzione in Corea di materiale bellico solo come rimpiazzo di quello obsoleto, in verità c’è stata l’introduzione di testate nucleari per i missili Honest John e di ogive per cannoni pesanti da 280mm, oltre che il dislocamento di 28 mila truppe anfibie.
A ben vedere infatti sarebbe sciocco pensare che gli Stati Uniti possano rinunciare così agevolmente alla loro postazione di controllo di Siberia, Mongolia e Cina. Altrettanto evidente è la preoccupazione di quest’ultima di ritrovarsi trasportata nelle problematiche del paese confinante; basti ipotizzare, in caso di unione delle due Coree, all’eventuale flusso migratorio che si creerebbe verso le regioni cinesi limitrofe. Altrettanto lampante è l’atteggiamento ostile posto in essere dalla politica nipponica, supportata palesemente dagli Stati Uniti d’America e dalla loro base militare ad Okinawa, dalla quale partono azioni militari congiunte che rappresentano delle vere e proprie provocazioni verso Pyongyang, la quale ha pensato di munirsi della tecnica nucleare come difesa da tali atti ostili (infatti gli Stati Uniti d’America difficilmente attaccano i proprio nemici se dotati di tecnologia nucleare). Inoltre non si può ignorare che, in caso di riunione delle due Coree, l’unico percorso possibile è quello che vede l’adeguamento dell’economia nordcoreana a quella sudcoreana e giammai l’inverso, il che significherebbe nel giro di qualche decennio raddoppiare di fatto la forza commerciale dell’attuale Sud Corea, creando una vera e propria potenza economica planetaria, che sicuramente stravolgerebbe tutti gli interessi economici dell’area, a scapito dei Paesi limitrofi, nessuno escluso.

Alla luce di tutto ciò, pare banale ma necessario porsi una legittima domanda: chi è, quindi, a non volere una Corea unita? Ed altrettanto scontata è l’insinuazione provocatoria, ma forse non troppo, secondo cui l’unica a volere una Corea unita sia proprio la “canaglia nordcoreana”.

Ma, tralasciando la retorica provocatoria, è auspicabile piuttosto che le potenze straniere si mettano da parte, e che al tavolo delle trattative si siedano solo ed esclusivamente i protagonisti di questa immensa tragedia.

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