FRONTIERE

Il Medio Oriente in fiamme e il rischio del conflitto globale

di Axel Famiglini

Sabato 7 ottobre 2023 un improvviso attacco di Hamas compiuto in territorio israeliano ha riacceso prepotentemente i riflettori sul conflitto israelo-palestinese, il quale era ormai da tempo passato in secondo piano a favore di altri scenari di crisi come, ormai da quasi due anni, la guerra in Ucraina.

Questa volta l’aggressione compiuta dagli estremisti palestinesi si è caratterizzata, sul piano militare ed organizzativo, per una qualità ed un’intensità assolutamente inedite per i gruppi armati che da decenni si confrontano con le forze israeliane all’interno di un’area dove Israele ha sempre potuto godere di un’incontestabile superiorità bellica, sia tattica che strategica. La capacità di Hamas di pianificare e di portare a termine, del tutto indisturbata, l’attacco contro lo stato ebraico ha suscitato in alcuni il dubbio che i servizi di sicurezza israeliani, notoriamente “tentacolari”, abbiano chiuso un occhio per favorire il definitivo tramonto dell’astro politico di Netanyahu e della sua opaca e controversa attività di primo ministro, la quale, come noto, ha prodotto lacerazioni mai patite prima d’ora dalla società dello Stato di Israele. Al di là che questo possa risultare un giorno vero oppure no (già lo Shin Bet avrebbe più semplicemente ammesso le proprie mancanze), l’operazione condotta da Hamas ha, in ogni caso, lasciato di stucco analisti e commentatori perché nessuno si sarebbe mai immaginato che la guerriglia palestinese potesse mettere in atto con un tale successo un’azione di così vasta portata, connotata da elevata complessità e coordinazione, nonché supportata da una potenza di fuoco di intensità del tutto inaspettata, in altri termini, non più una classica azione terroristica come tante nel passato ma un vero e proprio atto di guerra. Appare assai improbabile che Hamas e i suoi alleati locali possano aver sostenuto da soli l’onere della preparazione di un piano così esteso ed ambizioso. Oltretutto i quadri dirigenti di Gaza devono aver preventivamente valutato la potenziale risposta israeliana a fronte di una così ampia ed articolata aggressione, un attacco generalizzato connotato da un’efferata violenza e dalla premeditata implementazione di rapimenti di massa di civili inermi da utilizzare quali meri ostaggi da scambiare al momento opportuno.

Ciò che appare evidente è che Hamas non avrebbe mai potuto dare seguito ad un simile piano se non avesse avuto preventivamente il supporto morale e materiale dell’Iran, il quale, oltre a rendere possibile l’operazione a livello pratico, deve aver posto, per tempo, in stato di allerta le sue pedine in Medio Oriente, fra cui Hezbollah, affinché l’azione militare in corso in Palestina non terminasse come si sono sempre concluse le offensive terroristiche del passato, ovvero con la sconfitta dei gruppi palestinesi per opera delle soverchianti forze dell’esercito israeliano. Hamas ha potuto agire con tanta confidenza perché evidentemente sapeva che questa volta poteva contare sull’ombrello di Teheran e ciò con buona pace delle vite dei civili palestinesi della cui morte Hamas fa da sempre un ampio uso strumentale sul piano mediatico. Si può inoltre ritenere che l’Iran possa aver agito in maniera così spregiudicata perché a sua volta potrebbe aver ricevuto il beneplacito del suo più importante alleato internazionale ovvero la Federazione Russa e ciò in ragione del fatto che sarebbe altrimenti risultato assai problematico per i rapporti bilaterali fra i due Paesi se Teheran avesse tenuto all’oscuro Mosca su piani politico-militari così ampi e deflagranti. In realtà le risorse che l’Iran ha investito a Gaza probabilmente derivano, in parte, dai fiumi di denaro che l’economia russa riversa in quella iraniana a causa degli indispensabili rapporti economici che Mosca intrattiene con Teheran per via della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni occidentali. Dal canto suo la Russia sta traendo ampio giovamento dall’attuale situazione in Medio Oriente e ha tutto l’interesse che l’attenzione occidentale si sposti in quell’area assieme ad almeno parte delle risorse che altrimenti sarebbero state dirette in Ucraina. In tale ottica il Cremlino appare avvantaggiato dall’apertura di un “secondo fronte” pilotato dall’Iran, il quale, già storicamente impegnato nel progetto della distruzione dello stato ebraico, deve essere stato ben lieto di trovare una convergenza di interessi con Mosca, promuovendo semplicemente la classica agenda del regime degli Ayatollah con mezzi decisamente superiori al passato.

La Russia non ha perso un attimo di tempo per prendere posizione pubblicamente e si è affrettata a schierarsi, pur innalzando la solita cortina fumogena, dalla parte di Gaza e dei suoi sponsor iraniani. E’ altresì da tenere ben presente il fatto che, se a breve e medio termine, il conflitto in Medio Oriente elimina parte della pressione occidentale sul fronte ucraino, nel lungo termine il rinnovato scontro israelo-palestinese possiede una valenza geopolitica di grande importanza per Mosca. Infatti l’idea che Putin intende promuovere ormai da diverso tempo è quella di creare un asse politico-economico e militare alternativo a quello rappresentato da Occidente e Nato e strappare a quest’ultimo asse i Paesi arabi costituisce indubbiamente un elemento primario di questa strategia, in primis sul piano del controllo delle risorse energetiche ed economiche mediorientali e della relativa influenza che queste hanno sui mercati globali. E’ risaputo che già da alcuni anni fosse in corso un importante processo di riavvicinamento e di normalizzazione dei rapporti tra Israele e mondo arabo e riuscire a far fallire questo tentativo di distensione è uno degli obiettivi che Putin si è dato da quando la Russia si è impantanata in una guerra indiretta con l’Occidente in Ucraina. Infatti la pace fra Israele e mondo arabo rafforzerebbe il legame già in essere tra quest’ultimo e l’Occidente. Far naufragare questo negoziato agevolerebbe invece il distacco dei governi del Golfo dai tradizionali alleati occidentali e il loro trapasso verso nuove forme di alleanze con altri attori internazionali anti-occidentali. I Paesi arabi, da parte loro, a lungo oppressi da un senso di frustrazione e di delusione nei confronti di un’America politicamente disorientata e confusa, sono stati costretti a guardare altrove per cercare di tutelare i propri interessi minacciati dall’Iran, accettando le interessate proposte di mediazione che giungono da Mosca e, in ultimo, da Pechino, le quali si fingono mediatori mentre hanno già eletto da tempo Teheran nel ruolo di loro luogotenente nell’area. In quest’ottica portare la penisola arabica nei BRICS è forse il fine ultimo di un Cremlino che vede nella crisi israelo-palestinese una nuova opportunità di azione. Che Mosca sia pronta a fare di tutto per vincere la guerra in Ucraina lo dimostra la drammatica fine degli Armeni del Nagorno Karabakh, venduti dalla Russia all’Azerbaigian per compiacere l’accomodante Turchia e per punire l’insofferente e fin troppo filo-occidentale governo armeno. Lo dimostrano altresì le competenze militari e nucleari che dalla Russia, quasi volesse incarnare un nuovo vaso di Pandora, si stanno propagando ovunque vi siano stati pronti a supportare Mosca nella guerra in Ucraina, permettendo così che vengano messe a disposizione dei più allucinanti regimi del pianeta, come quello della Corea del Nord, tecnologie e conoscenze scientifiche in grado un giorno di spostare a loro vantaggio l’ago della bilancia degli equilibri strategici regionali e globali. A dire il vero gli stessi Paesi arabi, pur in parte giustificati da un Occidente che non sa offrire risposte adeguate, non disdegnano la pratica di pescare nel torbido, perché la manipolazione dei prezzi dei prodotti petroliferi in combutta con la Russia non si spiega solo con la loro insofferenza nei confronti del disimpegno di Washington. Parimenti la funambolica politica del Qatar, il quale, negli ultimi anni, pur rimanendo sulla carta un alleato dell’Occidente, è riuscito ad intessere oscure manovre politiche con  i Talebani, Hamas e l’Iran, rischia di dipingere la sua rinnovata euforia diplomatica con tratti che onestamente rasentano il grottesco (si veda, in ultimo, il potenziale scandalo, evitato in extremis, relativo ai fondi scongelati dagli Usa che sarebbero dovuti transitare verso Teheran, in cambio del rilascio di alcuni prigionieri americani detenuti in Iran, guarda caso proprio tramite la consueta opaca opera di intermediazione del Qatar, con il rischio che questi soldi andassero poi a foraggiare le milizie di Hamas o di Hezbollah). Allo stesso tempo lo sforzo diplomatico della Turchia non appare in alcun modo credibile visto che la Turchia di Erdogan ed Israele, nonostante il recente parziale riavvicinamento, sono da lungo tempo agli antipodi proprio sulla questione palestinese e, più in generale, su quello che dovrebbe essere l’assetto degli equilibri geopolitici del Medio Oriente. Per non parlare del tentativo di Putin di apparire “super partes” e di coordinare, nell’incredibile veste di mediatore, una risposta diplomatica di qualche tipo, uno sforzo che certamente non è riuscito a celare ben altre attività di coordinamento che devono essersi svolte da dietro le quinte assieme all’Iran. La pluriennale crisi del ruolo guida dell’Occidente ha con il tempo lasciato spazio all’iniziativa di altri attori politici intenzionati a soppiantare lo “status quo” per erigersi a nuovi soggetti egemoni di portata globale. Se da un lato la Russia non è riuscita ancora a piegare l’Ucraina nel corso del conflitto che vede rigidamente contrapposte le due parti, dall’altro la controffensiva di Kiev si è dimostrata deludente, se non fallimentare, con ciò contribuendo ad incrinare il sostegno che, magari già controvoglia, alcuni Paesi europei avevano offerto all’Ucraina, incrementando così il rischio di innescare un pericoloso effetto domino che porti ad una disintegrazione dell’alleanza occidentale a favore di Kiev. La guerra nell’Europa orientale e le dinamiche economiche che ne sono scaturite anche tramite il regime delle sanzioni dell’Occidente hanno accelerato, su pressione della Russia e delle necessità della sua economia, quel processo, già in corso da anni e caldeggiato in primo luogo dalla Cina attraverso il progetto della cosiddetta “Nuova via della seta”, di creazione di una rete economico-commerciale alternativa a quella controllata da Stati Uniti ed Europa la quale, a partire dall’esperienza maturata dal nocciolo storico dei BRICS, coinvolga le potenze emergenti e tutti gli stati storicamente posti “ai margini” e alla ricerca di un ruolo di più ampio respiro, ovvero soggetti statuali che, sovente, favoriscono un vasto sentimento di odio e rivalsa nei confronti dell’Occidente all’interno delle loro società, le quali conseguentemente hanno da sempre associato il mondo occidentale, in primo luogo, ad un passato imperialista e colonialista, finendo col pervenire alla conclusione che la causa prima  di tutti i “mali” che affliggono vaste aree del mondo sia da imputare esclusivamente all’Occidente stesso. Naturalmente, nonostante l’apparente condivisione di intenti, la Cina non può permettere che la Russia, la quale sopravvive anche grazie alla linfa vitale che giunge da Pechino, si metta stabilmente a capo di questa sorta di “Nuova Internazionale” e, colto il segnale di adunata che la portata della nuova crisi israelo-palestinese stava producendo, se ne è uscita con una chiara dichiarazione di sostegno per la causa palestinese e con l’ennesima “finta” iniziativa diplomatica. E’ certamente assai pericoloso per l’Occidente e per il mondo intero ciò che si sta configurando all’orizzonte e quanto sta accadendo è in primo luogo figlio della sciatta e schizofrenica politica estera che da troppi anni viene promossa da Washington e dalle cancellerie europee per opera di una classe politica che chiaramente non è culturalmente preparata ad affrontare le dinamiche della politica internazionale “reale”. Con la Russia che spadroneggia in Africa, che caccia i Francesi quasi senza colpo ferire e che si erge a nuovo (ed improbabile) Sandokan del “continente nero”, con una Cina che nei fatti ha soppiantato commercialmente il primato degli Stati Uniti a livello planetario e che viene accolta con favore dalle élite del Golfo persico, appare evidente che si stiano profilando all’orizzonte le condizioni per dare la spallata finale ad un Occidente ormai incapace di ribattere a tali sfide. Il timore statunitense di accusare apertamente gli Iraniani del loro diretto coinvolgimento nell’attacco contro Israele ricorda purtroppo gli estremi tentativi di evitare a tutti i costi la guerra promossi da un’Europa materialmente e moralmente esausta la quale, pensando erroneamente di poter scongiurare il disastro chinando il capo ad ogni occasione, arrivò sfinita e logora all’inevitabile tragico appuntamento del 1939. In quello che potrebbe essere il tentativo russo di rileggere in chiave moscovita l’antica politica della Germania prussiana del “Drang nach Osten” e della contestuale promozione della guerra santa dei popoli musulmani contro le “potenze imperialiste”, coalizzando le masse maomettane attorno alla Russia e aizzandole contro Europa, Stati Uniti ed alleati (sia nelle aree storicamente di insediamento musulmano che presso i luoghi di immigrazione nel continente europeo, negli Usa ed altrove), c’è da chiedersi se qualcuno a Mosca e “dintorni” non stia per caso tentando addirittura di imbastire il “casus belli” definitivo di un conflitto globale vero e proprio con il fine di porre termine una volta per tutte all’egemonia occidentale, ovvero un’eventualità che costituirebbe l’ultimo atto di un ventennio caratterizzato da una lunga teoria di sconfitte e di errori strategici patiti da un Occidente fin troppo a lungo colto alla sprovvista dalle dinamiche geopolitiche in atto e, forse, più semplicemente, assai mal governato. In tal caso, nella peggiore delle ipotesi qui prospettate, rimane da vedere se a Mosca, Teheran e Pechino alla fine prevarranno coloro che vorranno andare a tutti costi fino in fondo verso il baratro del conflitto totale o coloro che potrebbero accontentarsi di un accordo che in ogni caso sancisca già un nuovo “status quo” ove le potenze occidentali ne escano irrimediabilmente diminuite. Indubbiamente la pletora di sedicenti ed assai improbabili aspiranti mediatori che si stanno “autoaccreditando” nel fronte filopalestinese lascerebbe pensare che si voglia vagliare la possibilità di ottenere il risultato tanto agognato, almeno nei suoi aspetti essenziali, tramite un lavoro diplomatico che possa sancire una vittoria epocale per il mondo anti-occidentale, anche se magari non ancora totale e definitiva, ovvero garantirsi una chiara ed importante contropartita nei termini di una nuova ridefinizione degli assetti e degli equilibri globali in cambio del rilascio degli ostaggi e della fine delle ostilità su tutti i fronti. C’è da dire che, per quello che se ne sa al momento, incendiare il Medio Oriente con una nuova guerra, aizzare alla rivolta la comunità musulmana a livello globale facendo l’occhiolino ai gruppi radicali nonché spingere il mondo arabo all’assedio di Israele non costituisce solo l’apertura di un nuovo fronte ed un diversivo strategico ma anche un ricatto propugnato da tali finti mediatori che in realtà stanno sfruttando le difficoltà di coloro che ritengono essere i propri avversari per strappare loro le migliori condizioni possibili e per guadagnare il massimo peso politico ottenibile da spendersi poi sul piano delle relazioni internazionali anche con i propri stessi alleati. Quello che succederà nel prossimo futuro potrebbe dipendere in maniera rilevante dagli esiti dell’annunciata (ma finora rimandata) offensiva di terra su Gaza, posto che Israele decida per davvero di saggiare la propria Mogadiscio locale, un’eventualità che gli Stati Uniti probabilmente temono più di ogni altra cosa (e non a torto). In attesa che si sviluppino eventi che potrebbero rivelarsi parossistici, la sensazione che si ha in questi giorni è che l’umanità non sia mai stata tanto vicina a quello che sembra essere una sorta di “redde rationem” fra blocchi contrapposti a livello globale, una situazione che potrebbe condurre al fin troppo preannunciato terzo conflitto mondiale. Il presidente Biden ha chiesto ad Israele di non commettere gli stessi errori strategici “emozionali” (ma non solo) compiuti dagli Stati Uniti nel momento in cui l’America decise quali passi intraprendere in risposta agli attentati dell’undici settembre. La dichiarazione di Biden è indubbiamente condivisibile, tuttavia l’attuale situazione è conseguenza di quegli errori e di quanto ne è seguito, pertanto se da un lato sarebbe opportuno evitare “colpi di testa”, dall’altro, a fronte dell’ardimento dimostrato dalla controparte, non dovrebbe più mancare in nessun modo la necessaria fermezza tesa a fermare l’attuale aggressione contro Israele e l’intero mondo occidentale.

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