Irak. Dopo le rovine degli Stati Uniti, un nuovo orizzonte

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Leonardo Servadio

Il 20 marzo 2003 le truppe americane raccolte tra Kuwait e Arabia Saudita invasero l’Irak. Si aspettavano una specie di marcia trionfale verso Baghdad, le informazioni elaborate dalla CIA indicavano che la divisione irachena di base a Nassirya li avrebbe accolti come liberatori e che i fedayn guidati dal figlio del presidente iracheno Saddam Hussein avrebbero offerto ben poca resistenza. L’immagine di Saddam era quella del dittatore e i portatori di democrazia sarebbero stati accolti dalla popolazione come liberatori come era già avvenuto nel 1943-45 durante l’avanzata in Italia dalla Sicilia.

Non accadde nulla di tutto questo, ma vi fu un’altra guerra, la seconda guerra del Golfo, e ne sortirono conseguenze disastrose non solo per il Medio Oriente ma per il mondo intero in un’escalation conflittuale peraltro dalle origini lontane.

Questa rincorsa all’uso della violenza è stata promossa e giustificata sulla base di una “struttura di fede”, cioè di una volontà di credere in alcune affermazioni che apparentemente rendevano plausibile l’uso della forza. Tale struttura di fede è diametralmente opposta a quella che nel marzo 2021 ha motivato il viaggio di papa Francesco in quel Paese mediorientale. Perché la fede in sé è il motore di qualsiasi azione umana: ma solo dalla sua appropriatezza, dalla sua verità intrinseca, deriva la qualità delle conseguenza innescate dalle azioni che si intraprendono.

Quando la struttura di fede si fonda non sul confronto con l’infinitamente Altro, ma sulla ricerca di un potere puramente terreno, essa si rivela intrinsecamente fasulla. Il caso della guerra in Irak che nel 2003 ha avuto il suo tragico punto di svolta ne è un evidente esempio.

In un certo senso, nulla di nuovo sotto il sole. Agostino ne parlava con somma precisione nella Città di Dio: «I cittadini della città terrena son dominati da una stolta cupidigia di predominio che li induce a soggiogare gli altri; i cittadini della città celeste si offrono l’uno all’altro in servizio con spirito di carità e rispettano docilmente i doveri della disciplina sociale» (Città di Dio, libro XIV, 28). Ma entrambi i “cittadini” delle due città partono da una fede, si potrebbe dire da un paradigma di fondo che informa il loro pensiero. Anche guardando solo sul piano meramente materialista, si constata che la fede nelle cose del mondo, nel potere per il potere, genera distruzione, scontri e alla lunga autodistruzione. Il caso della guerra in Irak è particolarmente significativo per la gravità e lunghezza delle catene di sfacelo che vi si ricollegano.

Vendere menzogne per confezionare guerre. Lo sfacelo morale

Saddam, si diceva nel 2002 citando autorevoli fonti di intelligence, stava preparando la bomba nucleare, aveva acquistato dal Niger un’ingente quantità di uranio e disponeva delle strumentazioni necessarie per arricchirlo, come è necessario fare per realizzare ordigni nucleari. Non solo, in 946 siti aveva nascosto ingenti quantità di armi batteriologiche preparate nei suoi laboratori. Il Segretario di Stato statunitense Colin Powell il 5 febbraio 2003 parlò alle Nazioni Unite affermando con assoluta certezza che gli Stati Uniti avevano prove irrefutabili che Saddam stesse costruendo la bomba atomica e accumulando ordigni batteriologici. “Le nostre fonti di intelligence indicano che ha tentato di comprare tubi di alluminio di alta resistenza adatti per la produzione di armi nucleari” disse Powell, dopo aver riferito del tentativo di Saddam di procurarsi ingenti quantità di uranio. E, sottolineò, “non si può dubitare che Saddam Hussein detenga armi biologiche con cui può diffondere veleni e malattie letali capaci di provocare morti e distruzioni enormi”. Inoltre “v’è una connessione tra Irak e la rete terroristica di al-Qaeda”.

Colin Powell mostra una fialetta di antrace parlando il 5 febbraio 2003 alle Nazioni Unite. (Foto United States Government – Wikipedia)

Il mondo viveva sotto l’incubo degli attentati alle Torri Gemelle compiuti l’11 settembre 2001, che avevano aperto un nuovo capitolo nella storia delle guerre: quello di azioni terroristiche capaci di compiere eccidi di massa attraverso missioni suicide-omicide di fanatici capaci di portare la distruzione ovunque.

Sulla base delle argomentazioni presentate da Powell il mondo accettò la legittimità dell’intervento militare voluto e guidato dagli Stati Uniti. Il mondo credette a quanto Powell aveva autorevolmente affermato come vero: volle crederlo. Ma era tutto falso. Le informazioni di intelligence tali non erano, erano bensì solo propaganda. In Irak, si dimostrò ben presto, non c’era alcun deposito di armi biologiche, né v’era alcun centro di ricerca che fosse sulla strada di produrre armi nucleari.

Gli USA in tale frangente si mostrarono al mondo come propalatore di menzogne interessate. E questo ne enuclea lo sfacelo morale: tanto più grave poiché quel Paese si presenta come il baluardo della democrazia.

Costruzione e scoperta della menzogna

Sulla presenza di armi chimiche, sulle quali Powell si era espresso con assoluta certezza, emerse che in realtà non v’era alcuna certezza. Questo è stato dimostrato dopo l’invasione in diversi modi. Per esempio dal rapporto Chilcot, pubblicato in Gran Bretagna il 6 luglio 2016: dopo anni di indagini fu chiaro che il governo britannico (che insieme con quello statunitense con maggiore convinzione promosse l’avventura bellica) non disponeva di prove conclusive sull’esistenza degli asseriti armamenti biologici di Saddam e pertanto quella guerra non doveva essere intesa come “extrema ratio”.

Ancor prima, il 9 luglio 2004 e il 25 maggio 2007 negli USA fu redatto in varie fasi il “Report of the Select Committee on Intelligence on the U.S. Intelligence Community’s Prewar Intelligence Assessments on Iraq” che dopo aver riesaminato quanto discusso entro l’Amministrazione statunitense, trovò che le presunte informazioni erano false: “Gran parte dell’informazione fornita dalla Central Intelligence Agency perché fossero incluse nel discorso del segretario [di Stato Colin] Powell erano esagerate, ingannevoli o non corrette”. In effetti vi era stata solo una fonte irachena che aveva parlato di depositi di armi biologiche e di tale fonte la CIA sapeva che non era affidabile.

Armi nucleari e il caso Plame-Wilson

La falsità che Saddam stesse preparando armi nucleari era già stata dimostrata da un’agente della CIA incaricata di sorvegliare la proliferazione di armi nucleari, Valerie Plame e da suo marito, l’ex ambasciatore Joseph Wilson: mesi prima della guerra avevano scoperto (indagando nel Niger dal quale si supponeva che Saddam stesse acquistando uranio) che era falsa la notizia secondo la quale da lì l’Irak si stesse procurando ingenti quantitativi di uranio. Il rapporto diramato in via riservata da Plame e da Wilson non fu accettato dall’Amministrazione Bush. E dopo che nel marzo 2003 le truppe della coalizione internazionale invasero l’Irak, Wilson rese pubblico, in un articolo pubblicato sul New York Times il 6 luglio 2003 (“What I didn’t find in Africa”) quanto da lui trovato e comunicato per tempo e a chi di dovere riguardo alle menzogne diffuse dall’Amministrazione Bush. Per tutta risposta, tale Amministrazione attuò una nuova operazione propagandistica volta a colpire i coniugi Plame-Wilson, per tentare di screditarne le denunce, pur quando era ormai chiaro che in Irak non v’era alcuna arma di distruzione di massa: a tal fine il 14 luglio 2003 Robert Novak pubblicò un articolo sul Washington Post in cui denunciava Valerie Plame Wilson come agente della CIA. L’articolo di Novak fu scritto sulla base di un’imbeccata da lui ricevuta da Charles Libby, capo della segreteria del vicepresidente Dick Cheney: ovviamente l’attività della Plame Wilson era segreta e rivelarne il ruolo voleva dire agli effetti pratici cacciarla dalla sua carica nella CIA.

La struttura della CIA

Costituita nel secondo dopoguerra sulla base del servizio anglo americano OSS (Office of Stretegic Service) la Central Intelligence Agency ebbe due funzioni: la prima era di raccogliere informazioni che permettessero alla leadership politica statunitense di assumere decisioni adeguate alle condizioni internazionali, la seconda era di attuare operazioni volte a difendere gli interessi statunitensi nel mondo. La prima funzione era svolta dagli analisti, la seconda dagli agenti operativi. Il mondo politico si mostrò sempre più incline a usare dell’apparato operativo per imporre nel mondo quanto appariva consono coi propri interessi, piuttosto che a voler apprendere quali fossero i sentimenti, le inclinazioni e le condizioni degli altri Paesi. In pratica, la politica statunitense portò la CIA a essere sempre più uno strumento per il modello imperialista statunitense, per il quale con la scusa di portare avanti la politica dei diritti umani e la causa della democrazia, gli Stati Uniti si sono ingeriti con crescente impegno negli affari di altri Paesi.

Tim Weiner ha descritto con certo dettaglio questo processo degenerativo dell’apparato di intelligence statunitense nel suo “Legacy of Ashes”, pubblicato nel 2007. La guerra del 2003 è forse il caso più evidente di come la parte relativa al vero e proprio intelligence è stata cancellata, sempre che abbia mai avuto un vero peso nella CIA, mentre è rimasto solo il suo ruolo di condurre operazioni sporche e propaganda.

Quella che doveva essere una struttura intesa a comprendere come funziona il mondo e come relazionarsi con esso, è diventata sempre più un apparato inteso a diffondere la forma mentis americana e a piegare il mondo alla volontà della leadership statunitense. Il caso Libby è uno dei tanti esempi del modus operandi della politica americana attraverso le strutture impropriamente chiamate di intelligence.

Il caso Libby, Trump come Bush

Anni dopo la guerra del 2003, Libby fu condannato a 30 mesi di carcere e 250 mila dollari di multa a seguito delle indagini compiute sul complesso di menzogne e sviamenti che giustificarono la guerra in Irak. La condanna fu comminata per via di come egli mentiva al fine di proteggere le sue fonti, ovvero Dick Cheney, il vice di Bush. Ovviamente lo stesso George Bush si premurò subito di commutare la sentenza evitandogli il carcere, pur lasciando la condanna e la multa. Invece il presidente Donald Trump a anni di distanza ha concesso a Libby il completo indulto.

Un particolare questo, molto significativo: Trump, variamente propagandato dai suoi accoliti come personaggio anti-establishment e amante della pace, si è premurato di avallare e proteggere proprio quanto compiuto dalle parti dell’establishment statunitense più direttamente coinvolte nell’operazione bellica in Irak e nelle successive operazioni volte a impedire che venisse alla luce la verità sui loro complotti per coinvolgere il mondo in quella guerra.

Perché l’establishment guerrafondaio statunitense, il “complesso militare industriale” che Dwight Eisenhower denunciò nel suo ultimo discorso da presidente, teneva tanto ad affossare la verità sulle origini della guerra in Irak? Perché su questo punto si gioca la credibilità dell’establishment statunitense agli occhi della popolazione americana e del mondo. Perché la credibilità, cioè la possibilità di essere creduti, ovvero di essere oggetto di fede, è fondamentale.

Il meccanismo della fede

Guardando al complesso meccanismo della struttura di fede di cui la politica ha bisogno: il pubblico statunitense anzitutto, e più in generale l’opinione pubblica nel mondo occidentale, già prima della guerra in Irak del 2003 erano propensi a credere che Saddam fosse colpevole. Perché egli era senza ombra di dubbio un dittatore e già tredici anni prima si era macchiato del crimine di aver invaso il Kuwait provocando in risposta la più massiccia mobilitazione militare mai avvenuta dalla fine della seconda guerra mondiale.

Egli incarnava la figura della persona malvagia. Che l’Irak fosse un Paese dove, a differenza di altri Paesi islamici quali per esempio l’Arabia Saudita, vi fosse libertà religiosa e i cristiani potessero praticare il loro culto, appariva di secondaria importanza.

Nel mondo si registrava una forte urgenza di definire il colpevole e di colpirlo. Era una necessità divenuta indifferibile una volta che la figura del malvagio dittatore veniva associata a una minaccia globale e imminente quale quella rappresentata dalla potenziale acquisizione di armi nucleari e dalla asserita certezza che sarebbe stato possibile scatenare in qualsiasi momento una guerra batteriologica.

Tanto più indifferibile perché gli USA avevano bisogno di dimostrare al mondo che lo sfregio subito l’11 settembre 2001 non sarebbe stato impunito: in altri termini, che gli USA non erano un gigante dai piedi d’argilla che, a dispetto dei suoi armamenti ipertecnologici, poteva essere messo in ginocchio da un gruppo di fanatici disposti a tutto, com’era accaduto con l’abbattimento delle Torri Gemelle, il primo caso dell’equivalente di un bombardamento compiuto da una potenza straniera (i terroristi fanatici islamici) sul territorio continentale statunitense.

Gli USA danno, e hanno di sé, l’immagine della superpotenza tecnologica: nella tecnologia ripongono una fede senza limiti. L’attacco dell’11 settembre 2001 dimostrò che la tecnologia non è tutto.

Chi adora la tecnologia, ritiene di agire su un piano oggettivo, materiale e alieno da considerazioni di carattere morale, filosofico o religioso. Ma il tecnologismo, come lo scientismo, appartiene anch’esso al campo della fede: del credere in via pregiudiziale.

Dunque gli USA avevano bisogno che il mondo continuasse a credere in loro come leader del mondo malgrado i loro limiti messi in luce dall’attacco dell’11 settembre 2001. E poiché dal punto di vista statunitense essere leader ha finito per diventare l’essere chi si afferma sulla base della forza, bisognava affermare la giustezza dell’uso di tale forza.

Di qui che un gruppo ben organizzato, cioè l’amministrazione statunitense di George Bush, sia prima della guerra del 2003, sia dopo di essa, quando già la menzogna era stata rivelata, volle continuare ad affermare di disporre di prove certe del pericolo iracheno, e il mondo, abituato a essere sotto l’egida statunitense (v. il tema del rapporto schiavo-padrone trattato da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito) volle continuare a credere a tali affermazioni.

La fede come frutto di volontà

Quindi qui si ravvisano i due aspetti, entrambi frutto di volontà preconcetta: la menzogna del possedere prove da un lato, l’affanno di voler credere a tali prove dall’altro.

L’un aspetto senza l’altro non funziona, sono due polarità che si sostengono e si alimentano reciprocamente. È la dinamica della struttura di fede.

Tale dinamica garantisce la durabilità della convinzione. Anche dopo la conclusione delle operazioni militari, anche dopo che a tutti è stato chiaro che l’intelligence statunitense e il governo statunitense avevano mentito – e mentito consciamente – non v’è stato ravvedimento delle parti in causa, né una critica proporzionata al misfatto da parte di alcuna istituzione di alcuno dei Paesi che sono stati coinvolti nel sostenere le operazioni militari statunitensi e la distruzione dell’Irak.

L’unica istituzione che si era erta contro tali operazioni, sia al tempo della prima guerra del Golfo, sia nel caso della seconda guerra del 2003, è stato il papa Giovanni Paolo II, quale leader del mondo cattolico. Leader di un mondo che non ambisce al potere di questo mondo, ma alla giustizia intesa come valore assoluto. Qualcosa di totalmente alieno dalla logica del potere.

Al tempo della prima guerra del Golfo, successiva all’invasione compiuta dall’Irak in Kuwait, Giovanni Paolo II, pur condannando l’invasione, si rivolse al mondo chiedendo che non ne facesse emergere un’altra guerra. Il 12 gennaio 1991, parlando al corpo diplomatico presso la Santa Sede, il papa, riferendosi alla concentrazione di armi in Arabia Saudita in preparazione dell’offensiva contro l’Irak, disse che se tale preparativo fosse sfociato “in un’azione militare, anche limitata, le operazioni sarebbero particolarmente sanguinose, senza contare le conseguenze ecologiche, politiche, economiche e strategiche, di cui forse non misuriamo ancora tutta la gravità e la portata. Infine, lasciando intatte le cause profonde della violenza in questa parte del mondo, la pace ottenuta con le armi non porterebbe altro che alla preparazione di nuove violenze”. Tre giorni dopo egli inviò due lettere, a Saddam e a Bush per chiedere che desistessero dall’uso delle armi. Nelle sue parole era evidente la chiara percezione che dall’impeto bellico sarebbe derivata una catena di violenza difficilmente arrestabile.

Tempio sciita di Zakr al-Deen in Shingal (Sinjar), distrutto dal cosiddetto Stato Islamico – Daesh. (foto Levi Meir Clancy/Unsplash)

Ma gli Stati Uniti e la coalizione da loro guidata, lungi dal tentare di arrestare tale impeto, seguirono sulla strada dell’affermare la sua necessità.

Si noti che, a prescindere dall’invasione irachena in Kuwait, gli USA comunque avevano preparato in funzione antisovietica l’operazione militare che prese il nome di Tempesta nel deserto: L’URSS aveva invaso l’Afghanistan il 2 dicembre 1979 e se ne era andata sconfitta dalla guerriglia islamica peraltro foraggiata e armata dagli Stati Uniti, solo nel febbraio 1989. Ma se l’URSS non si fosse ritirata, il trasferimento di 500 mila soldati statunitensi nel Golfo era stato da tempo previsto in funzione antisovietica. Il gen. Norman Schwarzkopf, che guidò Tempesta nel deserto non inventò nulla. Era tutto già predisposto. Si attendeva solo l’occasione per innescare l’operazione.

Realtà effettiva e fede

Questo dimostra che la “struttura di fede” sul piano politico prescinde dalla realtà effettiva, anche a fronte di fatti macroscopici, evidenti e decisamente dimostrati. Gli Stati Uniti credevano di aver bisogno della guerra in Irak per riaffermarsi come potenza egemone anche a prescindere dall’invasione in Kuwait di Saddam, e con la forza del proprio apparato propagandistico hanno piegato il mondo a credere che tale avventura bellica fosse giusta e necessaria.

La fede è sempre quanto regge il pensiero umano. L’ondata di pensiero razionalista diramatasi nel corso della storia nei filoni illuminista, materialista, marxista, ha supposto di poter sovvertire tali condizioni affermando l’esistenza di una ragione perfettamente dimostrata sul piano fattuale. Solo da tale piano deriverebbe tutto quanto agisce a livello della struttura di fede.

Il problema è ovviamente che tali filoni di pensiero si sono innestati su di una critica al pensiero religioso che era e rimane fondata a sua volta su una struttura di fede aprioristica: cioè sull’ipotesi che la religione istituzionalizzata sia errata.

La differenza tuttavia, tra gli asserti razionalisti e la fede autentica, è che la fede fondata sulla religione stabilisce una pari dignità tra gli esseri umani (cosa che è particolarmente evidente nella tradizione cristiana ma accomuna tutte le religioni bibliche), mentre la verità asserita dai filoni di pensiero razionalista, illuminista, materialista, sempre implica una differenza di fondo: “noi che possediamo la ragione di contro agli altri che hanno torto”.

Così, se la religione avvicina gli esseri umani in un comune destino, nel segno della comune appartenenza umana, i filoni razionalisti, illuministi, materialisti allontanano gruppi e persone variamente implicando la differenza di formazione, di appartenenza, di classe, ecc.

Il neoimperialismo

Allo stesso modo, il neoimperialismo statunitense, come s’è manifestato nel caso cruciale nell’invasione dell’Irak nel 2003, non solo schiaccia con la forza, ma afferma la legittimità di farlo in forza della convinzione di appartenere a una casta privilegiata: quella di chi porta il verbo della verità rivelata attraverso l’istituzionalizzazione della democrazia a conseguenza dei principi asseriti con la Rivoluzione del 1776.

Il problema è che tali principi che stanno all’origine degli USA e che sono derivati dal filone della religione cristiana evolutasi dalla cultura classica, si sono persi nel corso degli anni e sono stati totalmente distorti negli Stati Uniti piegati alla logica del “libero mercato”, sino a divenire l’opposto di quanto rappresentavano all’inizio.

Le due strutture di fede

Si può ragionevolmente paragonare la fede in Cristo con la fede in asserzioni viziate e criminali come quelle sulla cui base è stato invaso l’Irak nel 2003?

La fede è un atteggiamento soggettivo che tuttavia riconduce immediatamente al proprio oggetto. Soggettività e oggettività nell’esplicarsi della fede formano un tutt’uno. La fede dice assieme del soggetto e dell’oggetto.

La fede in Cristo, come peraltro la fede in qualsiasi religione, riconduce a un’infinita alterità per cui implica una tensione non completamente risolvibile nella conoscenza positiva. È questo l’aspetto che l’atteggiamento razionalista non può condividere, poiché implica una cognizione e un’accettazione della limitatezza della capacità di conoscere, ovvero di ricondurre la realtà a categorie totalmente note, in quanto ricadenti sotto il dominio del pensiero.

Alla base della cognizione della limitatezza sta un atto di umiltà, non conciliabile col convincimento di poter veramente interpretare sino in fondo il messaggio che si ritiene di ricevere dall’infinita alterità chi pratica la religione con fanatismo o come strumento di potere. Tale atteggiamento è radicalmente estraneo alla tradizione del cristianesimo, per quanto nel corso della storia non ne sia stato esente. Ma non è estraneo alla causa del potere statuale o del potere di fatto, anche quando questo viene esercitato con la presunzione di attuare nel nome della divinità, come avviene per consuetudine inveterata negli Stati Uniti. Qui “in God we trust” e “God bless America” sono asserzioni correnti divenute prive di contenuto, poiché non ricordano la limitatezza dell’essere umano e pertanto la sua responsabilità di guardare all’altro come fratello. Piuttosto tendono a implicare un’affermazione di possesso, simile a quella del “Gott mit uns” che dai Cavalieri Teutonici passò all’Impero germanico e quindi al Terzo Reich nazista: Dio è con noi, perché noi e noi soli ne siamo i portatori. Così l’infinita alterità cessa di essere limitante per l’uomo, e l’uomo si erge a proprietario monopolista della divinità.

Il motto “In God We Trust” sulle banconote statunitensi.
Gott mit Uns, aquila imperiale e svastica. Fibbia della Wehrmacht (Foto StromBer/Wikimedia)

Dopo la guerra fredda

L’avventura bellica in Irak e le variegate diramazioni delle sue conseguenze hanno cambiato la faccia del mondo dal 1991 e in particolare dal 2003, imprimendo alle vicende internazionali un passo totalmente differente da quello che aveva dominato sino al periodo precedente.

Dal secondo dopoguerra la dinamica della guerra fredda aveva diviso il mondo in due polarità, il mondo capitalistico capitanato dagli Stati Uniti e il mondo comunista sotto l’egida dell’Unione Sovietica.

Caduta questa bipolarità, è subentrata la dinamica di uno scontro diffuso, in cui l’impeto del mondo capitalistico, aggregatosi nei decenni precedenti nel braccio di ferro tra le due superpotenze impegnate in una continua corsa al riarmo, è continuato dalla parte occidentale, mentre l’URSS si dissolveva e ritirava. Quindi, il mondo occidentale continuava sull’abbrivio della lunga spinta configuratasi nel mezzo secolo precedente, agendo contro parti di mondo che in precedenza avevano nell’URSS il loro punto di riferimento, e che senza questo riferimento non avevano più una struttura organizzata come quella precedente. S’è creato un vuoto.

A conseguenza, l’opposizione all’impeto statunitense si è riorganizzata attorno a criteri pseudo religiosi: al-Qaeda e simili gruppi fanatici e terroristici hanno deciso di farsi carico di esercitare la contro-pressione verso il potere militare statunitense che nel frattempo, liberato dalla minaccia sovietica, si sentiva più combattivo e desideroso di espandersi.

In questo si vede come gli Stati sono in grado di agire come organismi dotati di una personalità propria che avanza nella storia cercando di affermare il proprio potere contro quello altrui. È un po’ la logica che vigeva nel tempo degli scontri tra imperi. Dal secondo dopoguerra tali tensioni si sono ridotte alla bipolarità est-ovest, e con la caduta del potere sovietico si sono ulteriormente ridotte al potere statunitense a fronte del quale si è aggregato un nuovo potere diffuso, alimentato dalla reazione fanatica pseudoreligiosa contraria all’invadenza del potere militare statunitense.

In tutte queste contrapposizioni per grandi campi, il mondo capitalistico e quello comunista, il potere militare statunitense e la risposta del terrorismo di matrice islamica, c’è un fondo di carattere fideistico, o ideologico. Le élite alimentano le strutture di fede nelle masse sulle quali esercitano il loro potere, e le masse che seguono le élite a loro volta hanno bisogno di sentirsi unite nel nome di una fede.

Appare evidente come la fede nel capitalismo o la fede nella verità di asserzioni come quelle pronunciate da Powell alle Nazioni Unite non è paragonabile a una fede come quella esercitata nel mondo cristiano, che si fonda su principi di pace, di collaborazione, di armonia universale.

Ma entrambe le modalità di esplicare la fede manifestano il fatto che l’essere umano è anzitutto un essere che vive di fede.

Il viaggio di papa Francesco e la Città di Dio

La visita di papa Francesco in Irak, compiuta nel marzo 2021, ha dimostrato con chiarezza dove sta il discrimine tra fede autentica e la sua mistificazione.

Il terrorismo fanatico islamico ha corso il rischio di generare nel mondo occidentale l’idea che l’Islam nel suo complesso sia compromesso con il fanatismo e terreno di cultura di terroristi. Sarebbe stato il trionfo del razionalismo-illuminismo che vede nella religione il principio della divisione.

Papa Francesco con la sua azione ha dimostrato come invece la religione sia il terreno dell’unione, laddove la politica è terreno di discordia se non addirittura di scontro.

Nel luogo della desolazione e della distruzione il papa ha ripetutamente affermato la necessità e la superiorità della solidarietà, della collaborazione, dall’amore fraterno, e della necessità di perdonare per superare la logica dello scontro.

Papa Francesco in Irak, incontro interreligioso (screenshot da Vatican News)

Nel dialogo coi giornalisti sull’aereo che lo riportava a Roma l’8 maggio del ayatollah sciita al-Sistani il papa ha detto: «È un grande saggio, un uomo di Dio. Ha fatto del bene alla mia anima. E saggi così si trovano ovunque nel mondo». Evidenziando come la saggezza cui faceva riferimento prescinde dall’appartenenza a una specifica fede religiosa istituzionalizzata, mentre si riferisce alla capacità di affermare la comune appartenenza alla fratellanza umana.

Col suo viaggio in Irak papa Francesco ha riassunto il messaggio lanciato al mondo col Concilio Vaticano II e ha posto il concreto esempio di come quella terra, massacrata dalla volontà di potenza fondata sulla menzogna di cui il morente potere statunitense si è fatto carico, possa divenire occasione per la nascita di una riconciliazione umana.

Il trionfo della Città di Dio fondata sull’autenticità della fede, di contro alle rovine di una città terrena fondata su cupidigia e menzogna.

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