La guerra civile in Libia rischia di incendiare la sponda sud del Mediterraneo

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di Galliano Maria Speri

Il 4 aprile il generale Khalifa Haftar, a capo di un autoproclamatosi Esercito Nazionale Libico (ENL), ha ordinato alle sue truppe di marciare sulla capitale Tripoli per “liberarla dai terroristi”. La mossa ha ricevuto l’appoggio militare di Egitto ed Emirati Arabi Uniti e milioni di dollari dei sauditi ma Haftar, che contava sull’effetto sorpresa che gli avrebbe consentito una conquista lampo, sembra aver sbagliato i calcoli e ha trovato una dura risposta militare che potrebbe segnare l’inizio di una prolungata guerra civile che getterebbe nel caos il Paese. C’è il pericolo che la Libia diventi il terreno di scontro tra forze arabe contrapposte. L’Italia, il principale partner economico del Paese nord africano ma anche il primo approdo per chi fuggisse dalla guerra, rischia di pagare un prezzo altissimo se le parti non torneranno al tavolo delle trattative.

L’errore drammatico di NATO e Francia

Nella primavera del 2011 scoppiano proteste popolari contro il colonnello Muammar Gheddafi che a ottobre si rifugia a Sirte dove viene assediato. Tenta la fuga verso il deserto ma il suo convoglio viene individuato da aerei e droni della NATO, principalmente americani e francesi, che danno informazioni precise ai ribelli che catturano e uccidono il dittatore. La copertura aerea e lo spionaggio elettronico della NATO sono fondamentali per la sconfitta di Gheddafi, la cui eliminazione è voluta soprattutto dall’allora presidente francese Nicolas Sarkozy che spera di far subentrare la francese Total all’italiana ENI nello sfruttamento del gas e del petrolio libico.

[caption id="attachment_11885" align="alignleft" width="200"] Muhammar Gheddafi alla 12esima conferenza dell’Unione Africana nel 2009. Il dittatore libico è stato rovesciato nell’ottobre 2011 da oppositori interni che hanno goduto dell’appoggio della NATO e della Francia. La sua morte ha però aperto le porte alla destabilizzazione della Libia.[/caption]

L’azzardo non funziona e la Libia diventa il terreno di scontro di milizie tribali che vogliono spartirsi i ricchi proventi petroliferi. Si tenta una transizione verso una struttura democratica ma il potere si divide subito tra due governi rivali. Il primo, con sede a Tripoli, è guidato da Fayez al-Serraj e ha l’appoggio di ONU, Italia, Turchia, Qatar e Sudan. Il secondo ha la sede a Tobruk, nell’ovest del Paese, ed è sostenuto da Russia, Egitto, Francia ed Emirati Arabi Uniti (con l’Arabia Saudita sullo sfondo). L’uomo forte del governo di Tobruk è Khalifa Haftar, un generale amico e collaboratore di Gheddafi con cui entra in conflitto, tanto da dover fuggire negli Stati Uniti nel 1990. Haftar risiede negli USA per vent’anni prendendo la cittadinanza americana e, secondo alcune fonti mai confermate ufficialmente, stringe rapporti con la CIA. Rientra in Libia nel 2011, alla morte di Gheddafi, e diventa il numero tre delle gerarchie militari.

Il gioco di Emirati Arabi Uniti e Sauditi

L’ONU ha fatto molti tentativi di mediare tra i due governi libici per arrivare a una struttura nazionale unitaria, senza alcun risultato. Gli ultimi incontri tra le parti si sono svolti a Parigi, nel maggio del 2018, poi a Palermo nel novembre successivo e, infine, ad Abu Dhabi, nel febbraio del 2019, sempre con un nulla di fatto. L’inviato dell’ONU Ghassan Salame stava lavorando per una conferenza di pace che avrebbe dovuto segnare l’inizio della riappacificazione nazionale che si sarebbe dovuta tenere a Ghadames, al confine con l’Algeria, dal 14 al 16 aprile. La marcia su Tripoli dell’Esercito Nazionale Libico iniziata il 4 aprile ha reso carta straccia tutti gli accordi precedenti e ha mostrato chiaramente che il generale Haftar non ha mai creduto alla via diplomatica ma punta sulla forza militare per prendere il controllo della Libia, ma potrebbe aver fatto un gravissimo errore che rischia di scatenare il caos.

[caption id="attachment_11884" align="alignright" width="300"] Khalifa Haftar a colloquio con re Salman, durante la sua visita in Arabia Saudita, il principale finanziatore della politica avventuristica del generale.[/caption]

La mossa di Haftar ha sfidato pubblicamente l’ONU e la diplomazia internazionale e quindi il generale l’ha fatta perché ha ricevuto assicurazioni di sostegni e finanziamenti. Quello che viene pomposamente definito “esercito nazionale” non è altro che un’accozzaglia di milizie tribali e gruppi estremistici tenuti insieme dalle mire di mettere le mani sui proventi petroliferi e, in caso di successo, di poter disporre dei fondi della Banca Nazionale Libica e dei fondi sovrani controllati dal governo. Secondo un rapporto del Foreign Office britannico, citato dal Guardian del 9 aprile, gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno fornito un appoggio massiccio ad Haftar mentre un documento governativo britannico pubblicato nel 2018 concludeva: “Il vantaggio principale di Haftar è stato l’appoggio costante ricevuto dagli EAU e dall’Egitto – un sostegno dal punto di vista militare, politico e finanziario che supera di molto qualunque altro intervento di altri attori nel conflitto libico”.

[caption id="attachment_11886" align="aligncenter" width="1223"] Mappa della Libia con le posizioni delle varie fazioni sul terreno.[/caption]

Se l’Egitto e gli EAU hanno fornito armamenti e sostegno logistico, la molla che ha convinto il generale ad azzardare una mossa così rischiosa è stato il viaggio intrapreso in Arabia Saudita il 27 marzo 2019, dove il ras di Tobruk ha incontrato re Salman e anche l’ambiziosissimo erede al trono Mohamed bin Salman, oltre al ministro degli Esteri e al capo dell’intelligence. Secondo il Wall Street Journal del 12 aprile 2019, i sauditi hanno offerto ad Haftar milioni di dollari, prontamente accettati, per comprare la lealtà dei leader tribali e pagare le milizie. I sauditi intendono usare il generale per fronteggiare gli islamisti, soprattutto la Fratellanza Musulmana, nemica acerrima di Riad, che svolge un ruolo importante nella Libia post 2011. Così come sta succedendo in Yemen, distrutto da una sanguinosissima guerra civile che è in realtà una guerra per procura tra sauditi e iraniani, la Libia rischia di trasformarsi nel terreno di scontro tra sauditi e EAU, contrapposti a Turchia e Qatar, sostenitori di al-Serraj e dei Fratelli musulmani.

Francesi e Russi

La posizione della Francia che, ricordiamolo, ebbe un ruolo determinante nel rovesciare Gheddafi, è ambigua e contraddittoria perché, dai tempi della presidenza Hollande, ha stretto i contatti con l’uomo forte di Tobruk, specialmente tramite Jean-Yves Le Drian, l’allora ministro della Difesa. Lo stesso personaggio è stato scelto dal presidente Macron come attuale ministro degli Esteri che raccorda le posizioni francesi verso la Libia con Egitto e EAU. Ufficialmente, la Francia ha biasimato le iniziative militari di Haftar ma ha poi agito per bloccare una dichiarazione ufficiale dell’Unione Europea sulla Libia, retrocessa a posizione della portavoce esteri Federica Mogherini. Karen Pierce, ambasciatrice britannica all’ONU, ha proposto una mozione di condanna del generale libico al Consiglio di Sicurezza e bisognerà vedere come si comporterà la Francia, uno dei cinque Paesi ad avere il diritto di veto.

Un altro alleato di Haftar è la Russia che nutre un profondo interesse verso la Libia perché spera di poter ottenere una base militare che, in aggiunta a quella navale di Tartus in Siria, consoliderebbe la presenza russa nel Mediterraneo e rafforzerebbe la sua strategia verso l’Africa. Secondo Yehor Bozhok, vice ministro degli Esteri ed ex responsabile dei servizi segreti ucraini, negli ultimi tre anni la Russia ha fornito soldi, equipaggiamento, addestramento e sostegno diplomatico ad Haftar. “È nota la forte dipendenza del generale Haftar verso la Russia”, ha dichiarato il funzionario ucraino. Tutto questo fa parte di una strategia per creare un “anello intorno all’Unione Europea”, che parte dalla regione del Mar Baltico, passa per il Mar Nero fino ad arrivare al Mediterraneo. Secondo Mark Breedlove, un ex generale della NATO, la presenza russa in Siria le ha dato un potere di controllo sul flusso dei migranti verso l’Europa, trasformati in una vera e propria arma. Una presenza stabile in Libia, come potrebbe essere quella di una base militare, renderebbe la situazione ancora più delicata.

Il rischioso azzardo militare

La strategia intrapresa dall’Esercito Nazionale Libico (ENL) comporta molti rischi che non sembrano essere stati calcolati accuratamente. All’inizio dell’anno l’ENL ha marciato trionfalmente nel sud della Libia, una regione instabile che è diventata rifugio di avventurieri di ogni risma, ma anche di gruppi ribelli provenienti da Ciad e Sudan. La popolazione locale ha salutato con gioia l’arrivo delle truppe che, si spera, dovrebbero garantire stabilità e pace. Ma la marcia verso ovest è tutta un’altra cosa, perché va a toccare interessi agguerriti e strutturati. Le milizie di Misurata si stanno scontrando con le truppe di invasione e hanno preannunciato una controffensiva verso sud e est. Queste milizie sono la forza principale nella Libia occidentale e, nel 2016, hanno conseguito una vittoria decisiva contro lo Stato islamico. Non hanno nessuna intenzione di cedere alle mire di potere di Haftar e sono legate al governo di al-Serraj tramite il ministro degli Interni, Fathi Bashagha, nativo di Misurata.

L’immagine dell’ENL come di un fronte compatto, ben addestrato e pronto a combattere i jihadisti è un bugia colossale. Non solo l’esercito di Haftar è un’accozzaglia di mercenari e milizie tribali, ma ingloba la Brigata Tawhid, un gruppo di islamisti fanatici che hanno partecipato alla guerra civile siriana, e le milizie salafite Madkhali, fondate dal saudita Rabee Al-Madkhali, già a capo del dipartimento di Studi sulla Sunnah all’Università islamica di Medina. I Madkhali sono ferocemente contrari alle elezioni e a ogni forma di partecipazione democratica, tanto che all’inizio delle primavere arabe emisero delle sentenze per dichiarare “sedizione” la rivolta contro Gheddafi.

Un altro fattore da tenere in considerazione è che il generale ha 75 anni e seri problemi di salute e quindi il compito di sottomettere con la forza (e i milioni sauditi) le varie milizie potrebbe essere superiore alle sue possibilità. Il vero problema è che la sua base di potere si trova a est, a ridosso del confine egiziano, e quindi la lunga marcia che lo ha portato nelle vicinanze della capitale ha anche allungato enormemente le sue linee di rifornimento. Questo lo ha anche costretto a sguarnire la protezione militare del territorio che già controlla, creando un vuoto che potrebbe invogliare le forze jihadiste presenti nell’area ad approfittare della situazione. Il 9 aprile, forze jihadiste hanno lanciato un attacco contro la città di Fuqaha, nella Libia centrale, dando un’indicazione di quali pericolosi sviluppi si stanno delineando. L’ex ambasciatore britannico in Libia, Peter Millet, ha scritto sul Financial Times: “Il generale Haftar non può vincere. Mentre gode di un tacito supporto da parte della popolazione civile di Tripoli, stanca delle milizie e bisognosa di sicurezza, c’è una forte opposizione armata in grado di scatenare un bagno di sangue…Per impedire una prolungata guerra civile, i suoi amici e sostenitori lo devono persuadere a far marcia indietro e tornare al tavolo delle trattative. Ma non sarà un compito facile”.

Cosa rischia l’Italia

Il nostro Paese ha rapporti consolidati con la Libia che è un nostro fornitore di petrolio e, soprattutto, di gas tramite il gasdotto Greenstream, lungo 520 km, che eroga 46,7 milioni di metri cubi al giorno di gas. L’italiana ENI è molto attiva in Libia, nell’estrazione e nella ricerca e, finora, ha avuto un rapporto privilegiato con le autorità libiche. La situazione è drasticamente peggiorata con l’uccisione di Gheddafi e la lotta di potere che ne è seguita. Gli impianti di estrazione ENI in Libia sono protetti da milizie prezzolate che fino ad oggi hanno svolto il ruolo loro affidato. L’aspetto più importante, però, è rappresentato dalle migliaia di profughi provenienti dall’Africa subsahariana, bloccati in condizioni disumane in un Paese in guerra, che non può certo definirsi “porto sicuro” come qualcuno tenta ancora di fare. Il pericolo di una fuga di massa verso le nostre coste non può essere assolutamente trascurato e richiede l’elaborazione di una strategia a lungo termine.

[caption id="attachment_11887" align="aligncenter" width="1240"] Campo di detenzione di profughi a Gheryan[/caption]

La Francia dovrebbe rendersi conto che in una situazione così magmatica, come è quella libica, non si può seguire una linea politica che punti soltanto sugli interessi nazionali e consideri come concorrenti gli altri Paesi europei, senza prendere in considerazione il quadro strategico internazionale. L’Italia rischia oggi di pagare un prezzo molto alto per l’assenza di una politica estera chiara e incisiva, certo non migliorata dalle dichiarazioni roboanti di ministri completamente digiuni di politica internazionale che urlano frasi a effetto, come se stessero al bar sotto casa con gli amici. Per affrontare una situazione come quella attuale c’è bisogno di politica, ma con la p maiuscola.

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1 COMMENT

  1. Ho letto con molto interesse il suo articolo. Come al solito puntuale, esaustivo e ben scritto. La ricordo con grande affetto.

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