Da decenni ormai il conflitto israelo-palestinese infiamma gli animi e scatena manifestazioni accese, in cui si scontrano due posizioni irreconciliabili che si schierano lungo linee ideologiche. Mentre il Medio Oriente sta subendo la più grande trasformazione dalla Seconda guerra mondiale, è necessario analizzare le radici profonde del problema e ragionare su come le emozioni giochino un ruolo cruciale nella sfera politica. Potremo così capire perché Netanyahu, un abilissimo manipolatore della paura e realizzatore di una politica che favorisce principalmente i ricchi, sia arrivato a rappresentare le classi lavoratrici, diventando il più longevo politico israeliano. Un saggio illuminante ci fornisce gli strumenti per decifrare, su basi fattuali, un contesto irto di difficoltà storiche ed emotive.
Eva Illouz è una sociologa franco-israeliana, considerata una delle figure più importanti del pensiero contemporaneo. Nata a Fez in Marocco, si è trasferita in Francia all’età di dieci anni. Insegna Sociologia all’Università Ebraica di Gerusalemme e all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. La recente rielezione di Donald Trump è una conferma evidente di come i movimenti populisti continuino a crescere e lanciare la propria sfida alle democrazie liberali. Uno degli elementi che li caratterizzano è l’uso della paura del “nemico” e la strumentalizzazione del risentimento, causato da esclusione e discriminazione, per generare un orgoglio nazionale esasperato che diventa il combustibile che alimenta e sostiene il populismo autoritario. È certamente vero che l’Olocausto ha mutato per sempre l’inconscio ebraico, traumatizzato da un antisemitismo ricorrente nei secoli, ma è anche difficile negare che le persecuzioni del passato vengono sempre più spesso utilizzate per giustificare gravissime violazioni dei diritti umani contro il “nemico”. Eva Illouz analizza con rigore come lo stato di Israele sia diventato il paradigma di uno stile nazionalista e populista che, negli ultimi decenni, si è diffuso a livello mondiale.
La nascita di Israele: sangue e terra
Il Likud, il partito di Netanyahu, è il principale partito della destra che, con qualche interruzione, è al potere dal 1977. Si dice spesso che l’attuale Likud sia una versione estrema del suo predecessore, il partito Herut guidato da Menachem Begin. Si dimentica però che, almeno inizialmente, Herut era stato visto come un’organizzazione terroristica estranea al consenso sionista. Il 4 dicembre 1948, un gruppo di intellettuali americani pubblicò una dura critica del partito di Begin in occasione della sua visita negli Stati Uniti. Gli autori si dicevano molto preoccupati dall’apparizione nel neonato Stato di Israele di un «partito politico strettamente affine, per organizzazione, metodi, filosofia politica e richiamo sociale, al partito nazista e fascista. È stato formato dai membri e dai seguaci dell’ex Irgun Zvai Leumi, un’organizzazione terroristica, di destra e sciovinista con sede in Palestina». Questa dichiarazione era stata firmata da personalità quali Albert Einstein, Hannah Arendt e Sidney Hook. Illouz spiega che «secondo questi ebrei liberali, Herut era un pericoloso partito di estrema destra, che mirava ad annettere nuove terre, rifiutava di riconoscere la sovranità della Giordania e non voleva la pace con gli arabi».
Netanyahu non ha mai nascosto la sua contrarietà alla nascita di uno Stato Palestinese e non ha avuto nessuna remora quando, nel luglio del 1995, per protestare contro gli
accordi di Oslo, guidò una dimostrazione di piazza contro il primo ministro Itzhak Rabin con tanto di bara e capestro, nonostante che il servizio segreto interno lo avesse informato dell’esistenza di un complotto per assassinare il premier, come poi avvenne. Nella sua prassi politica, la destra al potere etichetta gli oppositori del governo come antipatriottici e minaccia alla sicurezza nazionale. Questa tendenza si è acuita da quando Netanyahu è stato costretto a ricorrere al sostegno dei partiti religiosi per mantenere il potere e ha quindi introdotto nella sua strategia un elemento religioso e messianico in cui la politica diventa semplicemente la realizzazione della volontà divina. Questo ha fatto sì che la terra diventasse uno spazio sacro, un attore fondamentale nello svolgimento di una storia divina ancora in divenire. Inoltre, i partiti religiosi hanno contribuito a frammentare la società israeliana che ha iniziato a suddividersi in laici e religiosi, patriottici e antipatriottici, ebrei provenienti dal Mediterraneo o dai Paesi dell’Europa centrale.
La mutazione genetica
I partiti religiosi e il Likud sono riusciti a capitalizzare il risentimento, reale o immaginario, della società israeliana che, dalla fondazione, è stata divisa in ashkenaziti (ebrei provenienti dall’Europa centrale) e mizrahim (ebrei provenienti dal Mediterraneo o dai paesi arabi). Storicamente gli ashkenaziti sono più istruiti e hanno governato Israele fino al 1977, quando Menachem Begin divenne Primo ministro. I dati dimostrano che i mizrahim guadagnano significativamente meno degli ashkenaziti, hanno meno possibilità di accedere agli studi e godere quindi dell’ascensore sociale. Le politiche liberiste di Netanyahu hanno arricchito principalmente le classi elevate (nel 2016 il 26,6 per cento delle famiglie israeliane era povero) ma il Primo ministro è riuscito nel capolavoro di essere percepito come difensore degli interessi dei diseredati (un’operazione simile è stata portata avanti con successo da Trump).
Il risentimento è collegato all’inferiorità sociale prodotta da condizioni reali di diseguaglianza economica ma invece di tradursi in una politica di giustizia universale, si trasforma in ostilità contro le élite. In questo modo il desiderio di vendetta diventa talmente forte da indurre gli strati inferiori della società a ignorare i propri interessi economici e riconoscersi nel leader che promette di vendicare le ferite del passato e diventa così un padre, un fratello che protegge il gruppo. Netanyahu, che si è sempre presentato come “Mr security”, garante e protettore dai nemici che minacciano l’esistenza stessa di Israele, è riuscito a rimanere al potere anche dopo i massacri del 7 ottobre 2023 di cui è il principale responsabile perché la paura del “nemico” è uno dei collanti principali della società israeliana.
Secondo l’autrice Netanyahu ha grandi affinità con leader autoritari come lo statunitense Trump, l’ungherese Orban, o l’indiano Modi. Abbandonato ogni orpello retorico, Netanyahu e i suoi alleati hanno trasformato lo stato di Israele in un pioniere del modello di purezza etnica a cui si ispirano i leader della destra populista. Coerentemente, il Primo ministro israeliano ha mantenuto ottimi rapporti con Orbán anche dopo che questi ha usato «tropi antisemiti durante la campagna per la sua rielezione nel 2018, soprattutto contro George Soros, il miliardario ebreo ungherese che sostiene cause liberali ed è a favore dell’apertura delle frontiere e dell’immigrazione. Rispolverando il cliché antisemita sul potere degli ebrei, Orbán lo accusò di tramare ai danni del Paese». Per Eva Illouz il gabinetto del Primo ministro israeliano «non ha mai ufficialmente contestato le inclinazioni e le affinità antisemite di Orbán. Piuttosto, è vero il contrario: non molto tempo dopo le elezioni ungheresi del 2018, Netanyahu si prese la briga di recarsi in Ungheria, assolvendo così Orbán dall’onta legata all’antisemitismo della Shoah».
Una mossa simile è stata fatta con la Polonia quando, nel febbraio 2018, il presidente Andrzej Duda annunciò di voler firmare una proposta legislativa in base alla quale sarebbe diventato illegale accusare la Polonia di aver collaborato con i nazisti. «Benché Israele abbia protestato contro questi sviluppi, nel giugno 2018 Benjamin Netanyahu e il Primo ministro polacco Mateusz Morawiecki firmarono un’intesa che assolve lo Stato e la nazione polacca da tutti i crimini contro gli ebrei, e inoltre condanna l’espressione “campo di concentramento polacco” perché ritenuta palesemente errata, nonché atta a banalizzare la responsabilità tedesca». Non dobbiamo quindi sorprenderci troppo se anche i suprematisti bianchi statunitensi citano Israele come modello di “supremazia etnica”.
Eva Illouz ritiene che Netanyahu e i suoi seguaci aderiscano alla visione del giurista tedesco Carl Schmitt (iscritto al Partito nazista) che subordina i vincoli giuridici alla geografia e all’etnicità trasformando il significato stesso del ruolo dell’ebraismo all’interno del nazionalismo israeliano. «L’ebraicità del Paese è stata radicalizzata con la controversa legge sullo Stato-Nazione del 2018. Intendersela con leader antisemiti può sembrare una contraddizione rispetto a questa legge; eppure le loro ragioni sono riconducibili alla stessa logica statalista, per cui lo Stato non si considera più obbligato a rappresentare il popolo nel suo complesso, ma mira piuttosto a espandere il territorio, ad aumentare il proprio potere designando i nemici, a stabilire chi è dentro e chi è fuori, a restringere la definizione di cittadinanza, a rafforzare i confini del corpo collettivo e a minare l’ordine liberale internazionale. La linea che collega l’appoggio di Netanyahu a Orbán con la legge sulla cittadinanza è la mera espansione del potere dello stato». Effettivamente, c’è molto materiale su cui riflettere.
Eva Illouz
Emozioni antidemocratiche
L’esempio di Israele
Castelvecchi, pp. 212, euro 18,50
Pubblicazione gratuita di libera circolazione. Gli Autori non sono soggetti a compensi per le loro opere. Se per errore qualche testo o immagine fosse pubblicato in via inappropriata chiediamo agli Autori di segnalarci il fatto e provvederemo alla sua cancellazione dal sito