Le intuizioni di un critico della società moderna perspicace e chiaroveggente

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Christopher Lasch (1932-1994), importante studioso e storico delle idee statunitense, è sicuramente un personaggio discusso e controverso ma con i suoi acuti saggi, che non hanno mai temuto di sfidare le teorie dominanti, ha saputo anticipare di decenni i guasti che il processo di modernizzazione avrebbe provocato nella società contemporanea. I suoi critici lo hanno accusato di non aver saputo elaborare soluzioni per i disastri che si andavano preparando, dimenticando, forse in malafede, che questo è il compito dei politici. Per questo è importante che venga oggi ripubblicato un suo illuminante saggio del 1981.

Lasch si è spesso mosso controcorrente, come fece nel 1977, in un saggio che difendeva la famiglia tradizionale e che gli attirò accuse furibonde da parte delle femministe. In La rivolta delle élite, il suo ultimo lavoro pubblicato lo stessa anno della sua morte, una critica feroce delle classi dirigenti al potere e della cultura che le sostiene e orienta, afferma che il liberalismo americano è “ossessionato dai diritti delle donne e delle minoranze, dai diritti dei gay e dal diritto all’aborto, dal bisogno di cancellare i modi di dire offensivi”. Nel saggio sulla cultura di massa, un feticcio difeso a spada tratta dai guru liberal di ogni Paese, l’autore riflette sul fatto che “dopo il Settecento, l’offensiva contro i particolarismi culturali e l’autorità patriarcale, che incoraggiava – almeno inizialmente – la fiducia in se stessi e il pensiero critico, è andata di pari passo con la creazione di un mercato universale delle merci, i cui effetti hanno portato a esiti del tutto opposti”.

Da “cittadino” a “consumatore”

Lo scopo dichiarato dell’autore è quello di spiegare perché la cultura di massa delle società moderne, dopo aver subìto un processo di omogenizzazione, abbia dato luogo non all’illuminazione e al pensiero indipendente, ma alla passività intellettuale, alla confusione e all’amnesia collettiva. In modo molto chiaro, Lasch rileva che “la crescita di un mercato di massa che distrugge l’intimità, scoraggia lo spirito critico e produce dipendenza dai consumi negli individui, annulla le opportunità emancipatorie che la dissoluzione dei vincoli un tempo imposti all’immaginazione e all’intelletto lasciava intravedere”. Di conseguenza, nella pratica, la libertà da quei vincoli equivale spesso alla semplice libertà di scegliere tra merci più o meno indistinguibili. “L’uomo e la donna moderni, illuminati ed emancipati si rivelano, a un esame più attento, consumatori dalla sovranità piuttosto incerta. Più che alla democratizzazione della cultura, siamo di fronte alla sua completa assimilazione alle esigenze del mercato”.

Lasch fa giustamente a pezzi le argomentazioni di Herbert Gans che, incapace di comprendere le palesi connessioni tra cultura e politica, sostiene che “le politiche economiche egualitarie sono nettamente più importanti di qualunque cosa abbia attinenza con la vita culturale”, difendendo così una concezione degradata di cultura che rifiuta esplicitamente una politica di educazione di massa. “Al pari di Gans –continua l’autore-, gli insegnanti americani invocano slogan democratici per giustificare le politiche che condannano la maggior parte dei nostri connazionali al semianalfabetismo. Per giustificare il fallimento generalizzato dell’istruzione pubblica, si appellano al dogma del pluralismo culturale”. Questo è un punto estremamente importante perché le teorie che, decenni fa, hanno devastato il sistema educativo americano, stanno imponendosi anche in Italia, che ha già un tasso di abbandono scolastico altissimo e un serio problema di analfabetismo di ritorno.

Il furore iconoclasta di coloro che vogliono distruggere ogni legame col passato, accusato di essere razzista e colonialista, favorendo con tutti i

Senza cultura e informazioni adeguate, l’unica forma di libertà che rimane alla proverbiale casalinga è quella di scegliere tra prodotti sostanzialmente uguali. (Bundesarchiv, Bild 183-41465-0002 / Hesse, Rudolf; Mihatsch / CC-BY-SA 3.0)

mezzi una “modernizzazione” che procede come uno schiacciasassi, non coglie l’intrinseca ironia di una “liberazione dagli atteggiamenti ‘tradizionali’ che per la casalinga si risolve quasi esclusivamente nello scegliere cosa consumare. Ci si libera dalla tradizione solo per piegarsi alla tirannia della moda. Nella nostra cultura, il processo di individuazione e ‘inclusione’ non mira a integrare il singolo in una comunità di eguali, ma mira a integrarlo nel mercato dei beni di consumo”. Se poi il cittadino comune tentasse di formarsi un’opinione personale rivolgendosi ai mass media si troverebbe di fatto confinato “come per qualsiasi altra merce, a scegliere tra opinioni preconfezionate e ideologie progettate e commercializzate da opinion makers attenti più al valore di scambio che al valore d’uso”. La cosa migliore che il “cittadino” trasformato in “consumatore” può fare con un materiale del genere è costruirsi non una vita ma uno “stile di vita”.

La tecnologia ci libera o ci controlla?

Un pensatore profondo e complesso come Walter Benjamin sosteneva che la tecnologia moderna, per sua stessa natura, potesse affrancare le masse dall’ambiente tradizionale e dalle superstizioni, promuovendo così una mentalità critica, scientifica e iconoclasta. Pur comprendendo che l’effetto immediato della comunicazione di massa era quello di potenziare il “falso incantesimo della merce”, Benjamin riteneva che, a lungo termine, lo sradicamento dalle vecchie tradizioni avrebbe creato un nuovo tipo di fratellanza. Sia i critici marxisti che i sociologi liberal aderiscono allo stesso mito del progresso storico e respingono le critiche mosse alla tecnologia moderna e alla cultura di massa come il prodotto di una specie di “nostalgia”. Ma, confutando questa impostazione, Lasch afferma che “uno dei più importanti progressi recenti della teoria sociale è la scoperta che la tecnologia moderna riflette nella propria configurazione strutturale la necessità stessa di affermare il controllo manageriale sulla forza lavoro”.

Il saggio riflette sul fatto che una società, in cui il potere politico ed economico è concentrato in una piccola classe di capitalisti, manager e professionisti, ha inventato “forme di tecnologia adatte a perpetuare la divisione gerarchica del lavoro e dunque a minare i precedenti modelli basati sulla solidarietà e il mutuo soccorso collettivi”. La conseguenza è che la configurazione stessa della tecnologia “accentra il controllo economico e politico, e sempre più anche il controllo culturale, nelle mani di una piccola élite di pianificatori, analisti di mercato ed esperti di questioni sociali”. Da questo punto di vista, i mass media non vanno visti come un semplice vettore dell’ideologia borghese, ma “come un sistema di comunicazione che mina sistematicamente la possibilità stessa di comunicazione, rendendo in tal modo sempre più anacronistico il concetto di opinione pubblica”.

Il punto non è che la tecnologia governa il cambiamento sociale o che ogni rivoluzione sociale ha origine in una rivoluzione dei mezzi di comunicazione, ma che la comunicazione di massa, come la catena di montaggio, per sua natura rafforza la concentrazione del potere e la struttura gerarchica della società industriale. E questo avviene in modo molto sofisticato “non disseminando un’ideologia autoritaria fatta di patriottismo, militarismo e sottomissione, come danno per scontato tanti critici di sinistra, ma distruggendo la memoria collettiva, sostituendo un’autorità responsabile con un nuovo e peculiare star system, trattando tutte le idee, tutti i programmi politici, tutte le controversie e tutti i disaccordi come ugualmente degni di nota, ugualmente meritevoli di un’attenzione peraltro discontinua, e quindi tutti ugualmente irrilevanti e dimenticabili”.

 La creazione di leader sintetici

Il saggio riporta un caso molto interessante nell’America degli anni ’60 del secolo scorso, quando un leader degli Students for Democratic Society (SDS) ebbe l’idea di sfruttare l’interesse che stampa e televisione aveva mostrato verso l’SDS per sollevare i “problemi che contano”. Ma ben presto ci si era accorti che l’attenzione dei media aveva trasformato la natura stessa del movimento. I giornalisti si erano buttati a pesce su leader di sinistra istrionici e molto appariscenti e, in pratica, questo aveva non soltanto influenzato la tattica del movimento, ma la sua stessa struttura interna. Erano così saliti alla ribalta personaggi come Mark Rudd, Jerry Rubin o Abbie Hoffman, “figure tragicomiche della controcultura che non avevano nessun mandato da parte di nessuno, ma che finirono per essere considerati i portavoce della sinistra radicale”.

Jerry Rubin (1938-1994), notissimo attivista radicale reso famoso dai media. Dopo aver abbandonato l’impegno pubblico, diventa un quotato uomo d’affari investendo nella neonata Apple Computers.

Lasch cita uno studio del sociologo e attivista statunitense Todd Gitlin (scomparso nel febbraio del 2022) secondo il quale “i mass media hanno di fatto rimpiazzato la vera autorevolezza che si fonda sull’eccellenza del carattere, l’esperienza, le conoscenze e le capacità” con un nuovo tipo di pseudo-autorevolezza basata sulla notorietà, e lo fanno non solo nei confronti della sinistra radicale ma della politica in generale. Purtroppo, “le nuove forme di comunicazione” (questo è il termine usato da Lasch che noi oggi potremmo sostituire con “internet”) consentono ad artisti e intellettuali di “raggiungere un pubblico più vasto di quanto abbiano mai sognato. Ma i nuovi media si limitano piuttosto a universalizzare l’influenza del mercato, riducendo le idee a merci”.

Secondo lo storico americano bisognerebbe smettere di fare teorizzazioni astratte sulle “nuove forme di comunicazione” e iniziare invece una discussione approfondita basata non su indagini sociologiche empiriche (come aveva fatto Gans), ma “sull’esperienza storica concreta di chi ha cercato di utilizzare i mass media per scopi critici, sovversivi e rivoluzionari”. Lasch ritiene che gli attivisti politici che cercano di cambiare la società farebbero meglio ad attenersi al “paziente lavoro che la costruzione di un’organizzazione politica richiede invece di tentare di aggregare un movimento affidandosi ‘a un gioco di specchi’, per riprendere le parole di Rennie Davis (un militante contro la guerra del Vietnam negli anni ’60, NdR)”.

Considerando che Contro la cultura di massa è stato scritto circa vent’anni prima deIla nascita della cosiddetta “cancel culture”, bisogna ammettere che ha saputo intravedere quelli che sarebbero stati gli sviluppi più preoccupanti dell’estremismo radicale. Il saggio denuncia in termini forti il tentativo di “sradicamento” che l’ala più fanatica del movimento liberal porta avanti contro quella parte della società che ritiene “bigotta”, “oppressiva” e “maschilista”. Lasch conclude affermando che “l’esperienza dello sradicamento, d’altra parte, porta non al pluralismo culturale, ma al nazionalismo aggressivo, alla centralizzazione e al consolidamento del potere sia dello Stato sia delle grandi aziende”.

Christopher Lasch
Contro la cultura di massa
Eleuthera, 120 pp. 14 euro

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