Le persone muoiono. I personaggi restano nel tempo sospeso dello svolgersi delle pagine. Tornano, rigirano, agitano pensieri e li ripropongono: come immagini che girano nel tempo circolare senza meta apparente. Ma se vive il personaggio, qual è la vita di chi lo anima nelle righe che allinea sul foglio? E che ne è dell’autore?
Un personaggio parte per cercare il figlio. Ne ha un altro in realtà: è un romanzo. Un figlio in carne e ossa e un figlio che vorrebbe essere di carta. Ma non è chiaro se troverà il primo che se n’è andato per vivere la sua vita, né è chiaro se recupererà il secondo che per animarsi ha bisogno del lungo processo di stampa e distribuzione e diffusione. I due figli sono tra loro legati: le due creature della carne e dell’intelletto. E sono entrambe frutto del viaggio: quel viaggio ch’è la vita con tutte le sue asperità.
Paolo Belmare – questo il nome del protagonista – parte da Bologna, dalla stazione con le sue lapidi a ricordo della strage del 2 agosto 1980, alla ricerca di una vita nuova: quella che va oltre le miserie di questo mondo e che prende, appunto, le sembianze del figlio lontano e del romanzo racchiuso nella mente: potrebbe dispiegarsi. Ma non è chiaro se alla potenzialità seguirà l’atto.
Seguiamo il viaggio. Milano, la nebbia dove si uniscono echi della sublime lirica scaligera e fugaci immagini evanescenti, forse allucinazioni. In ogni caso frammenti che enucleano porzioni di storia, frammenti di monumenti. Intervengono altri personaggi e nel loro susseguirsi si scorgono simboli, echi di brani letterari, briciole di storia che restano impresse nelle strade, nei marciapiedi, nelle piazze.
La vita è una ricerca di cose passate, o di cose ancora incompiute. La prosa si dipana in un inanellarsi immaginifico di figure che compaiono e svaniscono, in luoghi che sono improbabili sulla scena della realtà ma plausibili sullo sfondo dei significati simbolici, e sono sempre occasione di meditazione.
Il protagonista è egli stesso autore – di solito nel protagonista si riflettono aspetti della personalità dell’autore, qui invece l’autore ha voluto presentare un protagonista che aspira a essere egli stesso autore e in sostanza si chiede se e come possa esserlo. Se e come possa divenirlo quando deve destreggiarsi nell’incombere di una realtà cruda, efferata, dura che richiederebbe forse impegno politico: un impegno che l’autore-protagonista tralascia per scegliere la letteratura come luogo in cui sa potersi manifestare quella verità così sfuggente sul piano della realtà. Ma pure si chiede se possa la realtà accedere a quella dimensione eterea eppure capace di travalicare mode ed epoche, attingendo a un messaggio la cui consistenza – la cui verità – supera quanto può manifestarsi nello scorrere dei giorni e delle consuetudini con tutto il loro corredo di abitudini e pregiudizi.
“Scoprirsi senza talento è il primo passo verso la creazione”: così medita il protagonista-autore nelle prime pagine del racconto. È la riscoperta del “conosci te stesso”, la conquista di quella sana umiltà senza la quale è così facile ritrovarsi immersi nel narcisismo. È il dubbio che porta con sé la coscienza del limite, senza la quale non è possibile guardare nell’abisso: nelle profondità dell’essere di cui è così difficile accettare che resterà sconosciuto pur mentre lo desideriamo.
Paolo cammina per le strade nebbiose di Milano e si susseguono scene, compaiono personaggi. Alcuni ricordano storie passate, altri riecheggiano stereotipi urbani. Memorie di un mondo popolare che va scomparendo.
Poi si torna a Bologna, in una misteriosa basilica che assume i contorni di un antro. E ci sono incontri mentre la penna indugia sui fogli.
Si procede. La luce e le ombre della storia rivelano immagini della Magna Grecia. La Sicilia ricca delle sue rimembranze scolpite in arcaici racconti. E ancora a Milano si indugia nella pinacoteca di Brera. Pitture e personaggi, evocazioni e incontri surreali sullo sfondo dei suoi corridoi.
Il filo che unisce il succedersi dei capitoli, la ricerca del figlio. Lo si può immaginare come la trama di un racconto.
Ma qui più che un racconto ci si trova di fronte a una serie di suggestioni, come quelle che nascono dalle pitture astratte. Non vi si cerca un significato, perché non sono segni che indicano qualcos’altro da sé medesime, noto e ignoto assieme. Espressioni emotive, sogni tanto intensi quanto sfocati, vaghe ombre, colori sfavillanti, scavi nel pozzo della memoria: suggestioni che chiedono solo di essere accolte. Ma in fondo non ne hanno alcun bisogno, paghe come sono della loro singolarità.
I capitoli si succedono ma il racconto – o i tanti racconti che si tramano e si ordiscono e si susseguono – è solo uno dei tanti pretesti. Ogni pagina vive di un’intensità propria: qui si possono scorgere echi proustiani, lì il fluire ininterrotto di un Joyce, altrove risuonano le peraltro inarrivabili baroccheggianti acrobazie gaddiane… Nel racconto s’impone l’arte del raccontare in quanto tale, al di là della materia che potrebbe apparire come l’oggetto del racconto. Lo spiega il protagonista stesso: non sopporta la pittura figurativa, anzi, sembra quasi ripugnargli. Vive nel mondo dell’astrattezza, dove parole, frasi, silenzi danzano della loro musicalità intrinseca seppure condita di richiami che possono via via prendere una delle tantissime strade su cui viaggiano i significati: tutti possibili perché tutti innecessari. Necessario è solo il gusto dell’esercizio della parola: ha una bellezza in sé. Perché sa essere sontuosa, sa adagiarsi su molteplici registri, sa innalzarsi nell’incorporeità iperuranica ove alberga il mondo delle idee, sa sprofondare nel vortice della memoria che trascolora, in una matassa inestricabile, quel che fu con quel che avrebbe potuto essere, quel che si sarebbe voluto e quel che non s’è osato. Non cerca altro.
I capitoli possono essere letti di seguito, ma sarebbe un tradirli se ci si limitasse a insistere per seguire i passi del racconto. Qui i passi sono una danza, tante danze, che si susseguono per il puro, semplice, assoluto gusto di indulgere nel piacere di una lingua perfettamente dominata ma proprio per questo indomita, libera in mille evoluzioni, densa di accenti incalzanti, di per sé ammirevole.
Il libro è stato scritto per una semplice ragione: che è bello scrivere. (O forse si è scritto da solo, perché quando un’opera riesce bene si può dire che nasca come per un’intrinseca facilità, di cui l’autore resta solo come strumento atto a portarla in superficie.) E per questo lo si può leggere per la ragione complementare: che è bello leggere.
Leonardo Conti, L’era dei naufragi
(La Vita Felice, pagine 256, euro 20,00)
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