FRONTIERE

Perché è necessario un compromesso nella guerra tra Russia e Ucraina

di Axel Famiglini

L’atroce conflitto che vede attualmente contrapposte le nazioni della Russia e dell’Ucraina e la spirale di violenza e di orrore generata dalla cruda realtà della guerra in atto sul suolo del Vecchio Continente hanno sorpreso non poco sia l’opinione pubblica occidentale che gli stessi mezzi di informazione che dal 24 febbraio scorso ci stanno quotidianamente narrando la cronaca dello scontro in atto in Europa orientale. Spiace purtroppo constare come l’incredulità e lo sgomento dipinti a livello mediatico, soprattutto in Europa, per opera di una variegata costellazione di politici, commentatori ed analisti dimostrino, più che altro, la mancata volontà di leggere i fatti della politica estera per come questi si sono presentati nell’ultimo decennio e, da parte di alcuni, una scarsa conoscenza dei fondamenti della storia delle relazioni internazionali e della diplomazia. Se il caotico e scellerato ritiro americano dall’Afghanistan può essersi delineato agli occhi di Mosca come l’ultimo confortante segnale di un’alleanza occidentale ormai apparentemente allo sbando, il progressivo disimpegno americano dai principali teatri internazionali di crisi, istituzionalizzatosi col tempo nel corso delle presidenze Obama e Trump, ha rappresentato una delle cause che hanno via via alimentato in seno al Cremlino l’idea che fossero ormai maturi i tempi per mettere in atto un’energica azione militare volta a ridisegnare a proprio vantaggio la carta dell’Europa e delle relative sfere di influenza. La politica della “inazione ottimale”, lievemente turbata negli ultimi anni da un blando supporto materiale indirizzato a favore di varie milizie ribelli presenti in Libia ed in Siria, promossa dai paesi dell’Unione Europea e finalizzata ad evitare qualunque tipo di scontro diretto con la Russia sia sul piano militare che su quello politico ed economico, non ha fatto altro che cedere ulteriore terreno in aree fondamentali dal punto di vista strategico quali il Medio Oriente ed il Nord Africa. In particolare il fallimento anglo-francese in Libia ed in Siria, unito al co-dominio concesso dagli Americani alla Russia lungo la Mezzaluna fertile, ha consentito a Putin di rafforzare la propria immagine e quella della Federazione russa, presentandosi quale brillante e disinvolto attore politico-militare operante sullo scacchiere di un rinnovato “Grande Gioco” mondiale che si estende dal Sud America fino all’Africa e all’Estremo Oriente. Nella crisi ucraina ha indubbiamente danneggiato la già scarsa credibilità dell’Europa sul piano geopolitico il contrasto in essere tra le folle giubilanti filoeuropee presenti in piazza a Kiev nel 2014 e la politica di costante quieto vivere promossa negli anni dall’Unione Europea, assai più interessata al gas russo che alla sorte degli Ucraini stessi. La debolezza politica dell’Europa si è parimenti manifestata sul piano interno, permettendo alla Russia di Putin di infiltrare le democrazie del Vecchio Continente con i germi deflagranti dell’autoritarismo e del nazionalismo, inquinando in maniera deliberata i mezzi di informazione, i media sociali nonché lo stesso agone politico dei Paesi europei. Parimenti gli stessi Stati Uniti d’America hanno subito il costante attacco mediatico moscovita, subendo danni sociali e politici probabilmente assai peggiori di quelli patiti dalle sofferenti democrazie dell’Europa.

In questo contesto non appare assurdo credere che ad un certo punto Putin possa aver pensato di farla franca, regolando una volta per tutte i conti con l’Ucraina e scommettendo sul fatto che i Paesi occidentali, divisi fra loro e confusi al loro interno, a stento sarebbero stati in grado di imbastire una qualche genere di risposta, la quale in ogni caso sarebbe risultata blanda e di scarso impatto. Tuttavia ciò che Putin probabilmente non ha saputo cogliere nel mutare delle vicende della storia è che negli ultimi anni l’emergenza rappresentata dal Coronavirus ha indebolito fortemente quei partiti e movimenti che in Occidente si mostravano più favorevoli alle politiche del Cremlino e che, allo stesso tempo, gli stessi governi occidentali, dopo mesi di restrizioni imposte alla popolazione e di politiche sanitarie coercitive, erano più preparati ad inaugurare una nuova stagione di militarizzazione dell’azione politica. Contestualmente l’amministrazione Biden, pur continuando a risultare gravemente deficitaria sul piano internazionale, con fatica ha riportato gli Stati Uniti sul solco della tradizione geopolitica precedente alle prime derive isolazionistiche obamiane, nei fatti dimostrando un nuovo crescente interesse per le sorti dello scenario europeo e per le interconnessioni economico-finanziarie in essere, soprattutto, anche pro domo sua, in tema di idrocarburi, tra l’Europa e la Federazione russa. In quest’ottica Putin ha probabilmente sottovalutato i cambiamenti in atto, così come non deve aver tenuto in debito conto dei progressi di cui ha potuto beneficiare in anni recenti l’esercito ucraino grazie al supporto militare offerto dagli Usa e dal Regno Unito e all’esperienza maturata sul campo nel corso del lungo confronto militare con i Russi nel Donbass. L’idea espressa dal presidente russo tendente a negare una identità ucraina appare essere un mero espediente propagandistico. Se la vicenda storica rappresentata dal Rus’ di Kiev si presenta oggi remota e per lungo tempo assai strumentalizzata a livello politico, l’idea di una nazione ucraina va più probabilmente inquadrata nell’esperienza politica e sociale evolutasi nel corso sia della dominazione polacco-lituana che dell’attività dello stato cosacco, senza dimenticare per la parte occidentale del Paese l’importante fase austroungarica. Tuttavia appare verosimile ritenere che l’identità ucraina, più che per opera di specifici eventi da individuarsi all’interno dell’arco cronologico della sua storia, si sia rafforzata col tempo soprattutto a fronte delle reiterate politiche di aggressione che lo stato zarista prima e quello sovietico poi hanno intrapreso ai danni della popolazione civile e della sua identità culturale e linguistica.

Il problema della relazioni burrascose cronicamente intercorrenti tra la “Madre Russia” ed il mondo slavo ed est-europeo che la circonda rappresenta una criticità reale di cui il Cremlino non sembra aver mai voluto prendere atto; al contrario se la Russia iniziasse ad interrogarsi seriamente sulle motivazioni che hanno portato una parte ragguardevole degli stati ex-sovietici ad aderire entusiasticamente ad organizzazioni quali la Nato, probabilmente Mosca inizierebbe a rendersi conto che sono i comportamenti non propriamente rispettosi che la Russia ha intrattenuto nei confronti dei suoi vicini nel corso di lunghi secoli una delle cause che hanno fatto si che questa non risultasse particolarmente popolare presso di essi. La risposta economica, commerciale e finanziaria messa in campo da Unione Europea, Stati Uniti e Regno Unito, concretizzatasi sotto forma di pesanti sanzioni, è stata indubbiamente poderosa ed è figlia di una efficace regia che Washington ha saputo organizzare assieme all’alleato britannico, ottenendo un effetto tonificante per un’Europa ormai decrepita, improvvisamente galvanizzatasi da un rinnovato spirito bonapartista, naturalmente domiciliato presso la capitale francese. Le sanzioni occidentali possiedono il potenziale per danneggiare seriamente l’economia russa e con essa il consenso di cui Putin ha potuto godere per lungo tempo presso l’élite economica della Russia stessa, in primis rappresentata dai cosiddetti “oligarchi”. In quest’ottica, oltre al fronte militare attivo in Ucraina, Putin rischia di dover affrontare un ben più insidioso fronte interno al suo regime. Il tempo, pertanto, sembra giocare a sfavore dell’uomo forte del Cremlino e di questo Putin stesso probabilmente ne è consapevole. D’altro canto l’Occidente farebbe bene a considerare che l’irreparabile indebolimento della Federazione russa potrebbe costituire un pericolo per l’Europa e per gli Stati Uniti dal momento che la Russia, come la Turchia, svolge il fondamentale ruolo di stato cuscinetto rispetto alle criticità geopolitiche che potrebbero bussare alle nostre porte provenienti dal continente asiatico, in particolare pensando al ruolo egemonico che la Cina sta assumendo a livello globale e alle mire imperialistiche che questa coltiva ai quattro angoli del globo.

La Russia stessa, strangolata dalle sanzioni occidentali, potrebbe essere a poco a poco ipotecata dalla Cina, trasformando Mosca in una semplice succursale economica e geopolitica di Pechino a pochi passi dalle capitali europee. Una Russia forte in Estremo Oriente può invece costituire un fattore di sicurezza e stabilità per l’Europa, un contraltare che possa contenere l’espansionismo cinese in Asia centrale e contribuire a controbilanciare il peso globale dell’ex “Celeste Impero”. Nel corso delle ultime battute della guerra di Crimea, conflitto svoltosi nel corso della metà del XIX secolo, le potenze europee, pur considerando la possibilità di condurre una guerra totale contro l’impero zarista con il fine di metterlo definitivamente nella condizione di non nuocere, ad un certo punto compresero che i costi di una simile operazione avrebbero largamente sopravanzato i vantaggi, soprattutto analizzando i danni economici e sociali che il conflitto di allora aveva già prodotto in patria. Riportando le riflessioni di allora sullo scenario presente, occorrerebbe forse valutare la possibilità di applicare i medesimi schemi al tempo attuale. Così come nel XIX secolo Francia ed Inghilterra erano intervenute per puntellare l’ormai traballante Impero ottomano ed evitare che la Russia dilagasse in Europa e nel bacino del Mediterraneo, allo stesso modo oggi la risposta del mondo occidentale si è dimostrata giustamente ferma e decisa nel isolare la Russia con una sorta di nuovo “blocco continentale”, aiutando l’Ucraina a resistere militarmente il più a lungo possibile ed attuando una necessaria azione di contenimento dell’espansionismo russo. Tuttavia quanto finora messo in atto non può essere considerato l’unica risposta possibile, soprattutto se ci rendiamo conto che l’azione militare indiretta promossa dall’Occidente fino a questo punto non tutela affatto l’Europa e la Nato dal rischio di uno scontro diretto con la Russia. Appare pertanto necessaria un’altrettanto sostenuta opera di mediazione fra le parti. Una possibile soluzione finalizzata ad una rapida cessazione del conflitto potrebbe risiedere nel riconoscimento da parte russa di un’assai improbabile vittoria sul campo di battaglia, nel medio-lungo periodo, in seno ad un territorio fortemente ostile (oppure di un mero conseguimento di una vittoria di Pirro) ed in una contemporanea apertura occidentale nei confronti di alcune delle richieste che Putin ha messo sul tavolo delle trattative nel corso dell’attuale crisi.

In cambio di un ritiro russo dagli scenari africani (in primis dalla Libia), siriani e, più in generale, mediorientali, l’Occidente potrebbe accettare di iniziare a valutare un possibile riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea, area ineludibilmente a maggioranza russofona, e l’implementazione di una federalizzazione del territorio ucraino con contestuale azione di tutela etnico-linguistico-culturale delle popolazioni russe del Donbass, unita ad una promessa sottoscritta dal governo ucraino di neutralità militare della durata di alcuni decenni. Dal canto suo la Russia dovrebbe garantire la totale non ingerenza negli affari interni ed esteri dell’Ucraina, la smilitarizzazione generale del Donbass, il ritorno alla completa sovranità dell’Ucraina all’interno dei propri confini internazionalmente riconosciuti nonché un adeguato indennizzo a favore dell’Ucraina per i danni subiti nel corso dell’invasione moscovita. Naturalmente queste rappresentano semplici ipotesi di trattativa, le quali tuttavia vogliono in ogni caso rimarcare la gravità della situazione in essere e la necessità di pervenire ad una rapida soluzione del conflitto perché, come noto, le guerre possono evolvere verso esiti imprevedibili e drammaticamente sfavorevoli per entrambe le parti in campo, in particolare quando lo spettro delle armi nucleari, possedute da quasi tutti i principali attori in gioco, viene ventilato con eccessiva frequenza ed inquietante naturalezza.

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