FRONTIERE

Prospettive urbane: la civiltà del funerale

Avanzava lento il gruppo, nel silenzio. Appariva come appartenente a un altro mondo: la strada era per solito attraversata da auto rapide a volte rombanti e strombazzanti, o da gridi di persone che frettolose passavano, a volte urtandosi tra loro, a volte litigando, a volte propagandando prodotti da smerciare.

Ma quando passava il funerale era tutto calmo attorno, e chi indossava un cappello se lo toglieva in segno di rispetto. In quell’atmosfera inconsueta ciascuno, per il tempo che la processione avanzava, sospendeva ogni proprio agire e per un poco il pensiero andava ad altro: il mistero della vita e quindi anche della morte si presentava come interrogativo irresolubile ma a un tempo vicino, quasi amico. Come amichevoli erano i passi tranquilli, a volte solenni di chi accompagnava il feretro.

Era un viaggio: breve, poche centinaia di metri o pochi chilometri tra la chiesa e il cimitero: ma un viaggio in piena regola, poiché attraversava mondi lontani e li rendeva per un attimo tangibili. Il regno della vita nella sua multiforme eterogeneità, e il suo vasto, inesplorato, ignoto confine.

Non c’era urgenza che tenesse: quando passava il funerale tutto il resto restava in secondo piano. E tutti sapevano che quel lento, pur breve viaggio andava immensamente lontano.

Un viaggio di sguardi e di sospiri, di mani tese e di abbracci ritrovati, di promesse inconsuete.

Nei lenti passi del gruppo c’era il senso della comunità, anche se questo altrove mancava. Si sapeva: era solo un breve periodo, tutto sarebbe tornato come prima, ma nel momento del funerale tutto era diverso: si guardava altrove. Si scopriva quanto fosse effimera la frenesia dei giorni.

Ancora vi sono paesi dove le strade sono bloccate dal passaggio del corteo funebre, e chi arriva da fuori e pensa di attraversare in fretta l’abitato passando sulla strada statale si trova imbrigliato e non può procedere, deve accodarsi e attendere: ma si rassegna, sa che non si può pretendere altro. Di fronte alla morte nessuno ha diritto di prevaricare.

Solo in alcuni paesi ancora si pratica il rito di questo lento viaggiare assieme al luogo dell’ultima dimora. In città non ci son più processioni, neppure per le feste per le quali erano tradizionali. Se qualche parrocchia insiste vengono concessi in orari improbabili percorsi secondari, che non influiscano troppo sulla vita della velocità ambita (per quanto scomparsa nelle dimensioni del traffico), sui trasferimenti continui che animano la città. La vita della strada: un tempo appannaggio delle “lucciole”, oggi salotto semovente dove s’incanalano tensioni e aspettative, ambizioni e aggressioni, nelle armature delle carrozzerie con alto coefficiente di penetrazione aerodinamica, che cercano soddisfacenti accelerazioni tra un semaforo e l’altro, per giustificare il loro essere incongruo nella folla addensata sulle strade.

Il corteo da funerale non è cosa da città: la bara è caricata sull’auto di lusso opportunamente ristrutturata con ampi svolazzi metallici cromati e scappa via slalomando nel traffico verso il cimitero, inseguita da qualche parente e amico che cerca di non farsi seminare.

4 aprile 1957. Corteo funebre (Foto Franbi00 da Wikipedia)

Se ritrovasse il silenzio lento di quei cortei, i passi misurati delle persone che, per poche che siano, sanno fermare tutto il fluire del traffico poiché col loro assorto meditare e con l’interrogativo dolente negli sguardi ricordano che il tempo passa e altro ci aspetta: se questo avvenisse, la città ritroverebbe una parte fondante della sua anima perduta.

Stare assieme nel mondo civile non è solo lavorare assieme o divertirsi assieme, è anche chiedersi assieme perché siamo su questo mondo, che ci facciamo.

Che non si trovi risposta è secondario: è porsi la domanda che ci rende alla nostra umanità. Ed è cercare assieme di formularla che rende la città al vivere civile, distogliendola da quello sbattere d’ali continuo, inconcludente quanto quello della mosca che ripetutamente si schiocca contro il brillio della lampadina, attratta da qualcosa che non conosce né mai conoscerà.

Se alla città venissero resi i cortei funebri forse i cittadini potrebbero recuperare il senso della lentezza in luogo della velocità, della misura invece della pretesa, della pace invece dell’aggressività, del contemplare invece dell’accendere il motore da questo aspettandosi di poter correre, quando il flusso del traffico consente solo di incolonnarsi.

Coi funerali la città recupererebbe il senso del rispetto per l’altro: per l’infinita alterità rappresentata dalla morte rispetto alla vita, di cui le tante altre più piccole alterità sono espressione e presagio.

Forse recuperando i funerali la città recupererebbe qualcosa dell’essere luogo di civiltà.

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