FRONTIERE

Quale politica, quale filosofia al tempo del Covid-19?

Giorgio Agamben è tra i pochi che cercano di praticare la filosofia come luogo di libero esercizio critico del pensiero, e non invece, come accade per i più, come via per scalare cattedre attraverso collezioni di citazioni dietro alle quali si nasconde la mancanza di pensiero proprio. Prendendo spunto da alcune sue considerazioni qui pubblicate  (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-medicina-come-religione) vorremmo aggiungerne alcune attinenti a che cosa possa seguire alla caduta delle strutture di potere e dei sistemi di forza verificatasi col Covid-19.

Da filosofo, Agamben nelle sue analisi del tempo della peste corrente tende a idealizzare gli eventi attribuendo alle loro manifestazioni lo statuto di entità autonome: la “scienza medica” e il variare dei giochi di potere che oggi la assediano e la stiracchiano verso quella o quell’altra opzione politica. La scienza medica non esiste, perché quella della medicina è una pratica e in quanto tale soggetta in prevalenza alle capacità del singolo, che opera simile a un artigiano. Ma gli insegnamenti che necessariamente vi stanno alla base si avvalgono di molteplici diverse discipline, dalla chimica alla biologia, dalla fisica alla statistica per convogliarle verso un fine che dovrebbe essere il mantenimento o il recupero delle condizioni di salute delle persone. In questo incontrando i più diversi problemi, a partire da quello, assai difficile da dirimere, su quale sia veramente tale stato di salute, soprattutto ove ci si inoltri nell’oscuro e variegato ambito della salute mentale, che tanto è intrecciata con quella fisica da non potersi veramente distinguere un confine.

Nel caso poi della peste attuale del Covid-19 il fenomeno medico, con tutti i suoi limiti, è diventato globale, politico, strategico e diplomatico allo stesso tempo. È propriamente il primo caso di fenomeno globalizzato cui partecipano tutti gli strumenti della comunicazione di massa proiettati sul piano mondiale in un melange in cui i confini tra mondo scientifico e mondo del potere politico sono sfumati (abbiamo medici che a vario titolo dettano comportamenti politici ai loro governi, e governanti che impongono ai loro Paesi comportamenti medici). Ma in tutto questo v’è anche la pressione dell’opinione pubblica, non più monopolizzata da poche entità di peso editoriale, ma attraversata dalle reti dei social nelle quali si agitano gli umori ondivaghi di ciascuno e di tutti coloro i quali possono intervenirvi, o come propagatori di proclami altrui, o come aspiranti influencer, o come piccoli censori, in ogni casi amplificando opinioni che attraversano uno spettro amplissimo di verità asserite, profittando del fatto che è evidente a livello globale che c’è stato un totale fallimento nel definire una verità condivisa sulle caratteristiche portanti del tempo corrente: quale l’origine del virus? Quali le sue caratteristiche? Quale la sua reale pericolosità? Quali i mezzi per contrastarlo? ecc. A nessuna domanda alcuno ha dato una risposta conclusiva.

Quindi in questo primo grande saggio di globalizzazione pienamente condivisa a ogni livello e per la prima volta sfuggita al prevalente dominio della finanza ci si trova nelle condizioni di annaspare di fronte a qualcosa in cui bisogna riconoscere l’esistenza dell’ignoto, cioè del limite della capacità umana di conoscere e di agire.

Di solito nella storia la verità è ottenuta come effetto di processi di condivisione o di imposizione, con buona pace della maieutica socratica. A volte è la forza dell’ideologia, a volte la forza delle armi, a volte la forza del denaro a convincere i popoli che qualcosa sia vero e giusto e comunque da accettare e condividere, almeno sinché non si realizza la sua crisi e il paradigma affermatosi cade: così è stato per le grandi ideologie del XX secolo, che qua e là ancora pervivono ma come fenomeno mitigato dal riconoscimento avvenuto dei limiti loro propri, e così è avvenuto in epoche anche più lontane per i paradigmi scientifici dominanti (v. rivoluzione copernicana). In ogni caso ci si trova di fronte a un invariante del modo di pensare: vi sono “mode” che si impossessano del pensiero dei più, e quando questi più sono quelli che dispongono del potere, la moda si confonde col potere stesso. Sono mode esattamente come quelle che diffondono tagli specifici di abiti che dominano in una o più stagioni del mercato dei vestiti, o quelle che dominano in una o più stagioni del mercato dell’architettura o dell’arte. Perché sono sempre mercati, cioè luoghi in cui avvengono scambi trainati dal desiderio di possesso o più in generale di potere, anche se agli occhi di chi si ammanta di potere scientifico o culturale (i confini tra le due essendo assai labili) questo appare come anatema: per chi ritiene di possederle, la scienza o la cultura sono “pure” incontaminate dal losco o volgare denaro o del potere che pure tutti, o quasi tutti, coloro che partecipano al gioco della scienza o della cultura vanno inseguendo, cercando di presentare le loro opzioni come quelle più appetitose agli occhi di chi può decidere.

La novità con la peste attuale è che questa si è rivelata improvvisamente più vasta e di difficile manovrabilità per la sua diffusione capillare.

La Cina non ha potuto nascondere il virus come probabilmente avrebbe voluto. Gli altri Paesi non sono riusciti a tenerlo fuori casa loro. Le opinioni su come trattare il problema si sono accavallate e pur esistendo un’autorità centrale che dovrebbe essere preposta a governare tali fenomeni, s’è dimostrata incapace di farlo con l’auspicata efficacia e imparzialità.

Tutto questo ha lasciato il campo libero a un’altra forza: quella dei popoli che usualmente occhieggiano dal basso tali fenomeni, subendone le conseguenze e sapendo di non esser loro a governarle. Con questa peste ognuno in qualche misura ha sentito di poter essere un piccolo o grande protagonista, di poter esprimere opinioni, o di aderire più o meno liberamente a questa o quella opinione tra le tante circolanti. Come curarsi? Vaccinarsi o no? Significativo che queste domande (e tutte le altre relative alla natura e all’evoluzione del virus) siano divenute fonte di dibattito pur in assenza di vaccino e pur in condizioni in cui neppure è chiaro se sia possibile un vaccino a fronte della mutabilità del virus. Si rivela un’invariante della natura umana: il raccogliersi in gruppi che condividono un’opinione e, armati da questa, si contrappongono ad altri.

Come è accaduto con le ideologie: si è ideologizzata la scienza. O, forse meglio, si è rivelato come la scienza sia terreno di scontro tra ideologie che, in quanto tali, sono disponibili sul mercato libero delle idee, da chiunque acquisibili o rifiutabili, stante la prevalente incertezza.

Insomma, si sono inceppati i meccanismi di formulazione e trasmissione dei modi di pensare e degli allineamenti politici e sociali e in questa nuova condizione di vuoto proiettatasi sul piano globale è irrotto il popolo con tutta la forza della sua mutevolezza e dei suoi pregiudizi, questa volta non più orientati da strutture di potere consolidate.

Un poco quel che è accaduto anni addietro con l’irrompere del populismo dopo la caduta della guerra fredda e dei sistemi ideologici. La differenza, è che allora è rimasto svettante il capitalismo come ideale terreno in cui slanciare le ambizioni del singolo e dilatare il suo sfrenato egoismo. Ma oggi con la peste del covid-19 il capitalismo stesso ha mostrato i suoi piedi di argilla e il popolo e il populismo son rimasti senza argini, pur nel mondo irregimentato delle chiusure di città e frontiere.

Il fallimento della scienza ha liberato la forza delle opinioni e la rete globale è diventata il teatro per il loro diffondersi e mutuo alimentarsi raccogliendosi in schieramenti arrangiaticci ed effimeri: oggi uno può attendere con cieca fiducia l’arrivo dei vaccini, domani decidere che questi non arriveranno ed è meglio dedicarsi alla meditazione yoga. Oggi uno può scegliere di aderire a un tipo di terapia (così ha fatto il Presidente Trump) e domani scoprire che era meglio limitarsi ad andare in giro con la mascherina.

È la struttura dell’autorità che è venuta a cessare: autorità di qualsiasi forma: statuale, di governo, politica, scientifica, accademica. Il re, in tutte le forme in cui si è sinora presentato, s’è al fine rivelato nudo, a prescindere dalle vesti che abbia saputo prendere in passato.

Il tempo è stato sospeso, sospeso è stato il modo per definire ciò che è vero e ciò che è falso.

Il mondo dell’anarchia è quello che può dirsi più soddisfatto di tale situazione, per ora.

Per il futuro, poiché ogni vuoto politico e sociale tende sempre a essere riempito, ci si aspetta che prendano maggiore vigore le organizzazioni sovranazionali, visto che s’è dimostrato come i confini siano qualcosa di puramente fittizio e inefficace a fronte di minacce sottili e globali. Già era avvenuto col diffondersi delle radiazioni atomiche e dell’inquinamento, ma quei fenomeni erano ancora troppo relativamente localizzati per essere percepiti come pienamente globalizzati.

Se c’è un vincitore in tutta questa vicenda della peste del Covid-19 è proprio la globalizzazione che ormai s’è radicata nelle menti di ognuno con la forza dell’inevitabilità dimostrata a prescindere da tutte le forze di autorità, dimostratesi parziali o fallimentari. Nessuno potrà più strapparvela. La domanda che segue, è in che modo a questo definitivo allargamento di platea, corrisponderà una sua istituzionalizzazione sul piano politico.

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