FRONTIERE

Ricerca Operativa: algoritmi per risolvere problemi. Parla Giovanni Righini

di Antonio Servadio

Intervista a Giovanni Righini, professore ordinario di Ricerca Operativa, Università degli Studi di Milano.

Ai non addetti ai lavori, il termine “Ricerca Opeativa” fa pensare a qualcosa di assimilabile a “ricerca applicata”, che è un concetto assai generico. Ci può spiegare che cosa si intende per Ricerca Operativa (R.O.), da dove origina questo tipo di matematica e donde arriva quel nome così peculiare?

Questo è un punto dolente. “Ricerca operativa” più che un nome è un ostacolo! È un infelicissimo adattamento italiano di una denominazione inglese su cui nemmeno in ambito anglosassone c’è accordo…. L’origine risale alla seconda guerra mondiale, in preparazione della quale gli inglesi avevano istituito un gruppo di studio multi-disciplinare su “Research on Military Operations”. Terminata la guerra, caduto l’aggettivo “military” le tecniche sviluppate in ambito militare furono felicemente riversate in ogni ambito della vita civile, ma rimase il nome: “operational research” per gli inglesi e “operations research” per gli americani. Come se non bastasse, subito dopo la guerra chi non era particolarmente interessato alle applicazioni militari e industriali ma piuttosto a quelle economiche e relative alla gestione d’impresa pensò bene di inventare un altro termine ancora: “management science”, anch’esso praticamente intraducibile in italiano (qualcuno ha provato con “gestione aziendale”). Paradossalmente, se la nostra disciplina si chiamasse “bingobongologia” sarebbe meglio di “ricerca operativa”, perché per lo meno chi non sa di cosa si tratta non sarebbe indotto a pensare di saperlo, come invece capita di frequente. Per questo dicevo che “ricerca operativa” più che un nome è un ostacolo allo sviluppo della disciplina. Non solo in Italia ma anche all’estero i miei colleghi hanno problemi analoghi. Dappertutto si chiedono come tradurre “operations research” nella propria lingua e soprattutto se tradurlo o se utilizzare denominazioni diverse. Ricordo – ero un giovane ricercatore – intere sessioni del convegno annuale dell’Associazione Italiana di Ricerca Operativa (AIRO) dedicate – infruttuosamente – ad escogitare un nome diverso. Da un paio d’anni a questa parte l’AIRO ha effettivamente deciso di intitolare il suo convegno annuale in modo diverso, utilizzando la denominazione “optimization and decision science”. È certamente un passo avanti, che evidenzia la specificità del nostro settore (siamo esperti nella soluzione di problemi di ottimizzazione) e ne lascia intuire l’utilità (il supporto alle decisioni quando un decisore è alle prese con problemi difficili e li vuole affrontare con metodo scientifico). Dal 2008 a livello internazionale si è molto diffuso anche il termine “analytics”, che – tanto per cambiare – è intraducibile in italiano. Nei motori di ricerca ormai “analytics” è di gran lunga più gettonato di “operations research”. Tuttavia, essendo un nome nuovo, non ha una definizione chiara e si discute su quale sia la relazione tra “operations research” e “analytics”. Sicuramente l’intersezione tra le due è molto vasta tant’è vero che qualcuno chiama la ricerca operativa “advanced analytics”. Tutto questo può sembrare un argomento adatto a disquisizioni per cattedratici sfaccendati, ma posso assicurare che non è così. Non avere un nome “parlante”, che comunichi in modo efficace quello che sappiamo fare, ha moltissime conseguenze negative. Immaginiamo di voler attivare in Italia un corso di studi in ricerca operativa, come ne esistono all’estero. Come chiamarlo? Quali studenti prenderebbero mai in considerazione l’idea di laurearsi in “ricerca operativa”, quando in Italia questo nome non ha significato per alcuno? Per non parlare di tutte le volte che ho avuto a che fare con politici, imprenditori, funzionari ministeriali o scolastici a cui ho dovuto spiegare partendo da zero cosa significasse “ricerca operativa”. Se mi fossi presentato come professore di informatica o di geometria o di egittologia non avrei dovuto dare ulteriori complicate spiegazioni. E non mi sarei sentito rispondere, come è successo, che la ricerca operativa non è il caso di insegnarla a scuola perché “non c’è sui giornali”. Oppure che la ricerca operativa “dovrebbe per lo meno essere un settore scientifico-disciplinare” (come se non lo fosse!). Un nome sconosciuto e privo di significato ha conseguenze pesantissime sullo sviluppo della disciplina.

In quale modo questo tipo di approccio matematico-informatico si differenzia dagli approcci matematici più comuni, tra quelli insegnati negli atenei italiani e tra quelli adottati dalle aziende?

Ciò che caratterizza la ricerca operativa distinguendola dalle altre discipline di area matematica è lo studio di algoritmi per risolvere problemi di ottimizzazione. Mentre in molte altre branche della matematica lo scopo è soprattutto quello di dimostrare teoremi, nel nostro settore progettiamo algoritmi. Dimostriamo anche teoremi ogni tanto, ma sono per lo più teoremi che riguardano la correttezza e la complessità degli algoritmi, oppure le proprietà di taluni modelli matematici di problemi di ottimizzazione che si possono sfruttare per progettare algoritmi efficienti per risolverli. Negli atenei italiani sono ben presenti altri due settori della matematica applicata, cioè la statistica e l’analisi numerica, che però hanno obiettivi e metodi diversi dalla ricerca operativa.

La statistica ha un approccio descrittivo: per costruire un modello di un sistema complesso un esperto di statistica ha bisogno anzitutto di dati, di molti dati. L’esperto di ricerca operativa invece può studiare un problema di ottimizzazione e inventare un algoritmo per risolverlo anche senza avere alcun dato. A questo proposito osservo che l’attuale enfasi sulla “data science” e sui “big data” non coglie il bersaglio se non di striscio. È vero che oggi ci sono tantissimi dati digitali disponibili, ma il valore aggiunto viene soprattutto dalla capacità di sviluppare le tecniche più efficaci ed efficienti per risolvere problemi difficili. I dati, se ci sono, bene; se non ci sono, oggi sappiamo come procurarceli. Non è questo il punto cruciale. Seguire un metodo di lavoro guidato dai problemi che si vogliono risolvere e non dai dati disponibili è utile anche perché porta a generare i dati giusti, i “right data”, quelli appropriati per la circostanza e non necessariamente “big”. I “big data” sono preziosi per chi fa statistica, i “right data” per chi fa ricerca operativa.

Gli studiosi di analisi numerica sviluppano tipicamente modelli matematici di sistemi fisici, naturali o artificiali, il che rende possibile simularne il funzionamento e quindi, procedendo per tentativi, calibrarli, dimensionarli o controllarli opportunamente. Gli studiosi di ricerca operativa invece sviluppano modelli matematici non di oggetti fisici ma di problemi decisionali. Fatto questo, poi, non procedono per tentativi con tecniche di simulazione ma progettano algoritmi risolutivi appositi per ogni problema, sfruttandone le proprietà. Si tratta quindi di branche della matematica che utilizzano modelli diversi, metodi diversi, perseguendo obiettivi e risultati diversi.

Infine, per quanto riguarda le aziende, in Italia ne conosco davvero poche che abbiano competenze in ricerca operativa. Persino tra le grandi imprese italiane non se ne trovano che abbiano al proprio interno un gruppo di ricerca operativa, come invece è normale all’estero. Idem per quanto riguarda la pubblica amministrazione. Anche a causa di questo enorme ritardo accumulato in passato, oggi dalle imprese nei settori più disparati proviene una domanda molto forte di competenze sui modelli e sugli algoritmi di ottimizzazione. È una domanda che sta crescendo in modo rapidissimo, ma che il sistema scolastico e universitario italiano non è in grado di soddisfare.

A quali ambiti tecnici, aziendali, industriali è applicabile la R.O.?

A tutti, esattamente come la statistica o l’informatica. Sono discipline trasversali a qualunque settore o attività. Ci sono problemi di decisione o di ottimizzazione difficili in ogni ambito immaginabile: le tecniche della R.O. si posso usare per ottimizzare tanto la gestione di magazzini quanto trattamenti terapeutici, la progettazione di reti telematiche come la pianificazione dei turni del personale. Un paio di mesi fa mia figlia ha fatto un modellino di ricerca operativa per ottimizzare il calendario delle interrogazioni nelle sua classe al liceo. Uno degli aspetti più affascinanti del mio lavoro è proprio la varietà.

Può farci almeno tre esempi di utilizzo della R.O. e tre di M.S., esempi scelti in ambiti completamente differenti, così da aiutarci a comprendere come questi approcci siano utilizzabili da organizzazioni, industrie, imprese?

Volentieri. Parto dagli ultimi progetti che sono stati commissionati al nostro laboratorio. Uno riguarda la riorganizzazione dei percorsi dei veicoli per la raccolta differenziata porta-a-porta dei rifiuti solidi urbani. Un altro riguarda la pianificazione dei turni del personale di reparti ospedalieri. Un altro ancora, simile, riguarda l’assegnamento ottimale dei compiti ad auditors bancari, tenendo conto delle loro competenze e della loro collocazione geografica. Un altro ancora riguarda la decisione su quali prodotti tenere a scaffale nelle farmacie e in che quantità. Tutti questi progetti sono arrivati dopo l’estate. In passato abbiamo realizzato sistemi di ottimizzazione del sistema di trasporto sociale di anziani e disabili per i comuni del territorio cremasco. Abbiamo studiato con algoritmi di ottimizzazione la massima capacità di trasporto merci su chiatte lungo il bacino idrografico del Po. Abbiamo studiato da diversi punti di vista l’ottimizzazione dei sistemi di emergenza-urgenza del servizio 118: come dimensionare la flotta delle ambulanze, quali contratti stipulare con la associazioni che le forniscono, dove collocare le ambulanze, come assegnarle alle missioni. Tra l’altro per questo progetto abbiamo ricevuto diversi riconoscimenti. Più di recente abbiamo realizzato un algoritmo di ottimizzazione per un servizio di trasporto pubblico urbano a chiamata per un capoluogo di provincia in Piemonte. Abbiamo in corso da alcuni anni un grosso progetto sull’ottimizzazione dei processi produttivi con imprese cremasche del settore della cosmesi. Ma il progetto che ricordo più volentieri è quello in cui più di quindici anni fa abbiamo realizzato l’algoritmo di pianificazione delle osservazioni della superficie terrestre per la costellazione satellitare COSMO SkyMed, un gioiello tecnologico italiano.

R.O. e M.S., sono utili e praticamente fruibili anche da piccole e medie imprese? Lo chiedo pensando al tessuto economico italiano, che è ricco di piccole e piccole-medie imprese, le quali molto spesso non sono nelle migliori condizioni per investire risorse per analisi e ottimizzazioni dei processi.

Certo. Uno dei progetti recenti che ho realizzato in prima persona è stato presso una piccola impresa di quindici persone. Il problema era quello di minimizzare gli scarti di lavorazione. Invece di impiegare tempo prezioso per risolvere il problema a mano, adesso hanno un algoritmo che lo fa per loro in una frazione di secondo e calcola soluzioni migliori di quelle ottenibili a mano. E a me è costato due o tre giorni di lavoro, non di più.

Aziende che volessero fruire dei benefici della R.O./M.S., in pratica, a chi potrebbero rivolgersi, in Italia, e come dovrebbero muoversi per identificare gli interlocutori adeguati e allacciare accordi collaborativi?

Nel mio settore ci sono molti professori e ricercatori che sono ben contenti di cimentarsi nella soluzione di problemi reali. Non a caso parecchi nostri colleghi matematici “duri e puri” disdegnano la ricerca operativa ritenendo che non sia “vera matematica” ma piuttosto qualcosa di simile all’ingegneria, il che è una specie di insulto dal loro punto di vista, mentre per noi è quasi un complimento. Ogni anno il convegno nazionale di ricerca operativa, pur senza trascurare gli aspetti più teorici della disciplina, è un autentico campionario di soluzioni innovative per problemi reali. Lo scorso giugno a Milano il Decision Science Forum ha presentato a 400 manager una carrellata impressionante di progetti reali, fatti e finiti, uno più bello dell’altro, quasi tutti realizzati dall’azienda organizzatrice dell’evento, una delle poche che si occupa seriamente di R.O. in Italia.

La collaborazione accademica però non basta. L’università non può sostituire le imprese nel fornire quei necessari servizi di assistenza al cliente che esulano dall’ambito della ricerca. Per questo ritengo fondamentale che alla crescente domanda di soluzioni a problemi difficili corrisponda sul lato dell’offerta un’organizzazione che veda università e imprese competenti alleate nel fornire risposte corrette, ciascuna nel proprio ruolo, senza “rubarsi il mestiere” a vicenda.

Mettendomi nei panni di un’impresa vedo diversi ostacoli. Uno, evidentissimo, è la totale assenza di percorsi universitari in Ricerca Operativa nelle università italiane. Questo impedisce alle imprese di aumentare il loro organico e loro “potenza di fuoco” come sarebbe invece necessario. Ultimamente sono letteralmente bombardato da richieste di imprese che vorrebbero assumere giovani bravi con competenze sui modelli matematici e gli algoritmi di ottimizzazione. E anche quando organizziamo gli stages in università per gli studenti delle scuole superiori (altra iniziativa a cui tengo molto e che realizziamo ogni anno da quasi vent’anni) e i giovani ci chiedono “A che corso di laurea devo iscrivermi per studiare queste cose?” vorrei tanto non dover rispondere “Vai all’estero”.

Un secondo ostacolo è la fuffa. Periodicamente ci sono parole-chiave che diventano dei mantra che molti tendono a ripetere e a citare senza sapere nemmeno definirle chiaramente: “big data”, “intelligenza artificiale”, “machine learning”, “analytics”… Dietro a queste etichette, ampiamente usate anche dalle università (anzi, soprattutto dalle università) per attirare studenti e finanziamenti e costruirsi un’immagine “trendy”, spesso non c’è molto altro oltre al “rebranding” di discipline pre-esistenti. Ho visto coi miei occhi corsi di studio “nuovi” astutamente messi in piedi nel giro di un’estate riorganizzando l’esistente con denominazioni “alla moda”, senza assumere un solo ricercatore in più nei settori davvero emergenti. Nei panni di un imprenditore farei molta fatica a identificare chi è un interlocutore affidabile e chi no. Il rischio di commissionare progetti a persone incompetenti purtroppo è molto alto. Ai dottorandi del nostro laboratorio è capitato più di una volta di ricevere e-mail da giovani di altri gruppi di ricerca con richieste di aiuto perché i loro professori avevano stipulato contratti per risolvere problemi che in realtà non erano in grado di risolvere. Quando università e imprese si presentano insieme, questo può dare maggiori garanzie che si tratti di persone serie e competenti.

Un terzo ostacolo è la divisione troppo marcata tra università e imprese. Bisogna sperimentare e promuovere forme di partenariato che consentano a ricercatori e imprenditori non solo di lavorare insieme, anche negli stessi spazi fisici, ma anche di prendere decisioni insieme per sviluppare insieme istituti dove si svolgano attività di ricerca, alta formazione e trasferimento di conoscenza. Ma questo implicherebbe modifiche nell’assetto organizzativo attuale del sistema universitario.

Nel mondo accademico italiano (comprendendo anche enti analoghi quali ad es il CNR, gli IRCCS, ecc.), quanti sono i centri di ricerca di R.O./M.S. identificabili, riconoscibili come tali? O meglio, è possibile stimare approssimativamente quanti soggetti si dedicano allo studio e/o all’insegnamento di R.O./M.S., tra senior e junior, complessivamente?

Un censimento accademico è presto fatto con il data-base on-line del MIUR. Siamo 143: 50 professori ordinari, 54 professori associati, 20 ricercatori a tempo indeterminato, 19 a tempo determinato. La mancanza di canali di reclutamento per i giovani emerge chiaramente anche solo da questi dati. Di questo passo il settore è destinato all’estinzione in pochi anni. Aggiungo che i gruppi di ricerca più numerosi contano al massimo quattro o cinque persone. Tanto per dare un’idea quantitativa di cosa significa il divario con l’estero, ho confrontato la situazione della Lombardia con quella di altre tre regioni europee che – insieme alla Lombardia – vengono definite “i quattro motori d’Europa”, ossia il Baden-Wuerttemberg, la Catalogna e l’Alvernia-Rodano-Alpi. Partiamo da quest’ultima: nella sola città di Lione, ci sono tanti professori e ricercatori in ricerca operativa quanti in tutte le università lombarde messe insieme. Nella sola città di Grenoble, idem. Nella sola città di Saint Etienne, idem. Quindi in quella regione francese ce ne sono più del triplo che in Lombardia. Nel Baden W., il Karlsruhe Institute of Technology (KIT) comprende dal 2009 un Institute for Operations Research, che impiega una trentina di professori e ricercatori in quattro settori: analytics e statistica; ottimizzazione discreta e logistica; ottimizzazione continua; ottimizzazione stocastica. Il solo gruppo di ottimizzazione discreta e logistica è formato da 17 tra professori e ricercatori, cioè quanti sono i professori di ricerca operativa delle università lombarde sommati insieme. Poi bisogna aggiungere l’Università di Heidelberg come minimo… Passando alla Catalogna, l’Università di Barcellona offre un corso di laurea di II livello in “Statistics and Operations Research” insieme all’Università Politecnica di Catalogna, la quale, oltre a quattro dipartimenti di matematica applicata, ha un dipartimento di statistica e ricerca operativa composto da quaranta tra professori e ricercatori, che offre corsi in quattro diverse facoltà (Matematica, Informatica, Ingegneria industriale e Ingegneria aeronautica). Inoltre già dal 1989-90, cioè da trent’anni, offre un proprio corso di dottorato in statistica e ricerca operativa. Del resto l’Università Complutense di Madrid, dove ho trascorso un periodo come visiting professor qualche anno fa, ha ben tre dipartimenti di statistica e ricerca operativa con cinquanta persone ciascuno. In nessuna università italiana ne esiste uno. A Malta sì.

Cosa si può dire invece circa la situazione all’interno di aziende, industrie e altre organizzazioni?

Che siamo all’anno zero. Le imprese italiane, grandi e piccole, e anche le pubbliche amministrazioni stanno scoprendo adesso (o talvolta ri-scoprendo) che esiste l’ottimizzazione e che è proprio necessaria. Stanno finalmente scoprendo che all’informatica si può chiedere qualcosa in più dei data-base “che non si parlano fra loro” e dei sistemi informativi “chiavi in mano, ma da personalizzare”. Stanno scoprendo a loro spese che dietro la sbandierata “data science” spesso non c’è nulla che abbia a che fare con la soluzione di problemi decisionali complessi. Stanno scoprendo che Industria 4.0 non sono solo maxi-incentivi e sgravi fiscali ma che esiste anche un contenuto scientifico, da mettere a fuoco in mezzo al polverone delle parole-chiave di dubbio significato che lo avvolgono e che lo nascondono più che comunicarlo. Ma fanno molta fatica, come sempre accade quando si è in ritardo. E soprattutto, il che è più grave, non possono contare su un sistema scolastico e universitario all’altezza della situazione. Non perché manchino le competenze, ma perché le regole che determinano il funzionamento del sistema universitario italiano sono inadeguate.

Limitandoci agli atenei italiani, per la sua materia di studio e insegnamento, si prevede un incremento, un decremento, o una stasi delle risorse (umane, finanziarie, infrastrutturali etc) per i prossimi anni? In Italia, gli atenei stanno valorizzando appieno il potenziale espresso dalle expertise che vengono formate dai corsi di laurea e dai dottorati? Se Sì, secondo quali percorsi? Se NO, per quali motivi, secondo lei? E in tal caso quali percorsi intraprendono i giovani che escono dai corsi di R.O./M.S.?

Come dicevo poc’anzi commentando la carenza di organico, l’intero settore “Ricerca Operativa” è avviato ad estinguersi e ad essere probabilmente assorbito da quello di Analisi Numerica o da quello di Statistica o magari di Informatica. Il reclutamento di giovani ricercatori ormai è semplicemente impossibile. Nella mia università, che pure è una delle più grandi d’Italia, l’ultimo concorso da ricercatore in ricerca operativa è stato nel 1993, ventisette anni fa! Io stesso, che oggi sono professore ordinario di ricerca operativa, ho iniziato come ricercatore in informatica. Altrimenti non sarei mai entrato. In una situazione del genere i percorsi che intraprendono i giovani sono quelli del Brennero, del Tarvisio, del Frejus… ma da Malpensa si fa prima. Scherzi a parte, i miei ex-studenti ed ex-dottorandi sono sparsi per tutta Europa. Nel mio laboratorio abbiamo vinto in meno di quindici anni qualcosa come una decina di premi nazionali e internazionali per tesi di laurea e di dottorato. Tuttavia questo non ha aperto nemmeno uno spiraglio per alcuno di quei giovani di talento, che invece sono apprezzatissimi a Parigi, a Losanna, a Berlino, a Madird… Poi sento parlare di “valorizzazione del merito”.

Diamo ora uno sguardo all’estero. Quale è la situazione della R.O./M.S., su scala globale? Quali sono i paesi più avanzati? In quali queste materie sono in stato di rilevante sviluppo? E’ possibile fare una stima almeno approssimativa dei trend globali di queste discipline, in termini di sviluppo degli studi e anche di ricadute sul mondo dell’economia?

Negli USA fino a una decina d’anni fa erano attivi un centinaio di corsi di studio universitari di primo e secondo livello (bachelor e master of science nella loro terminologia) in “operations research” o “management science”. Da quando si è diffuso il termine “analytics” sono nati più di duecento nuovi corsi di studio in un decennio. Questo è il livello di dinamicità del sistema universitario statunitense, che evidentemente non è governato da regole fatte apposta per perpetuare l’esistente. La ricerca operativa è nata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e quindi è abbastanza logico che sia molto sviluppata in quei paesi. Però la Germania, che a quei tempi era “dall’altra parte”, oggi è certamente tra le nazioni “leader nel settore”. Anche l’Olanda che è grande come Lombardia e Piemonte messi insieme, ha numerosi gruppi di ricerca di altissimo livello e un programma di dottorato di ricerca interuniversitario che definirei senza uguali nel mondo. In Canada il CIRRELT di Montreal, altro centro di ricerca interuniversitario, è considerato a buon diritto il “gotha” della ricerca operativa. Berlino ha avuto il Matheon per molti anni, un altro centro di eccellenza straordinario. E sono tutte iniziative interuniversitarie; non penso sia un caso. Dove si permette ai ricercatori e ai docenti di università diverse e dipartimenti diversi di lavorare insieme e si finanziano i progetti di ricerca veri e non le etichette dei dipartimenti, immediatamente si vedono i risultati.

Chi esce da un ateneo con una buona formazione di R.O./M.S., che tipo di mercato del lavoro può affrontare? Può fare qualche esempio di incarichi di lavoro pertinenti, anche facendo un confronto tra Italia ed estero? I giovani che lei ha laureato o diplomato, dove sono andati, a fare cosa, dopo essere usciti dall’ateneo? Quanti sono rimasti nel circuito accademico?

Come dicevo sopra, chi è rimasto nel circuito accademico in Italia sta tuttora lottando con il precariato e tiene le valigie pronte. Altri sono già all’estero da anni. Altri ancora hanno trovato impiego in imprese sia in Italia che all’estero. In Italia ci sono alcune imprese che si occupano di ricerca operativa e sono quindi fornitrici di soluzioni; sono poche ma di ottimo livello, anche nel confronto internazionale. Realizzano progetti soprattutto nel settore della logistica e dei trasporti. Chi invece lavora presso aziende “consumatrici” di ricerca operativa si occupa dei temi più svariati a seconda del tipo di azienda. L’ultimo dottore di ricerca uscito dal nostro gruppo adesso è a Berlino e si occupa di pricing per una multinazionale dell’abbigliamento: studia come decidere il prezzo migliore a cui vendere ogni articolo in ogni negozio nel mondo: un bel problemone! C’è anche chi riesce a lavorare in Italia alle dipendenze di aziende straniere: all’estero il tele-lavoro non è una cosa così strana. Ho ritrovato un nostro ex-alunno a pochi chilometri da noi, ma alle dipendenze di un’azienda danese.

Quali sono le limitazioni che lei trova nella sua attività didattica, di ricerca, e di collaborazione con industrie, aziende e imprese o altri enti? Trova qualche tipo di ostacolo, o limitazione, o particolari lacune che sarebbe necessario colmare?

Nei rapporti con il mondo extra-accademico trovo solo porte spalancate e più passa il tempo e più si spalancano. I problemi sono all’interno dell’università e sono molto gravi. La radice di tutto è l’impossibilità di reclutare giovani ricercatori di conclamato valore. I motivi sono piuttosto ovvi per chi sa come funziona l’università. Le università sono troppo spesso governate dal basso, soprattutto quelle più grandi: le decisioni vengono prese dai dipartimenti, dove le risorse si attribuiscono “per alzata di mano”. Così i concorsi vengono sistematicamente banditi per allargare i gruppi di ricerca più numerosi nei settori tradizionalmente più forti: in altre parole, piove sul bagnato. È un meccanismo che sembra fatto apposta per conservare l’esistente. In un sistema di questo tipo la ricerca operativa (come tante altre discipline numericamente minoritarie) resta a secco. Mi sembra che sia così in tutte le università d’Italia, non conosco una sola eccezione. Vedo continue proposte e anche riforme per cambiare il modo in cui si svolgono i concorsi, ma continuo a sperimentare che in realtà il vero problema non è affatto quello, bensì il modo in cui si arriva a decidere in quali settori bandire i concorsi. Fa scalpore la tipica notizia del “concorso truccato” vinto da qualche somaro raccomandato a scapito di un candidato bravo, ma purtroppo non fa notizia il fatto che per 27 anni non si veda nemmeno un concorso da ricercatore in ricerca operativa in un’università come la Statale di Milano, tanto per fare un esempio. Per i concorsi truccati basta l’azione della magistratura; ma il vero problema è ciò che accade dovunque in modo perfettamente legale secondo regole che nessuno sembra avere la minima intenzione di riformare.

Quale è la percezione che il mondo accademico riserva alla R.O./M.S.? Ci sono forse dei problemi culturali o di “territorio” (parrocchie) o entrambi?

È normale che ciascun accademico tenda a considerare la propria disciplina come la più importante di tutte. Ma questo accade anche all’estero e tuttavia non impedisce ai sistemi universitari di funzionare bene e di fungere da motori di sviluppo per i loro territori. Ma ci sono le “parrocchie accademiche” istituite e finanziate per legge, e ovviamente nascono anche i problemi di campanili. Basterebbe eliminare le parrocchie e sparirebbero tanti problemi. Non pretendo che chi fa informatica o analisi matematica si innamori della ricerca operativa. Basterebbe che non fossero queste persone a poter votare se istituire o no una posizione da ricercatore in ricerca operativa. Il discorso naturalmente vale per tutte le discipline. Quello della ricerca operativa è solo un esempio tra tanti possibili, forse uno dei più eclatanti ma non l’unico.

Come finanziamenti per la ricerca, le fonti sono sufficienti, in Italia e in Europa ? Quali sono le principali fonti? Ad esempio, cosa possiamo dire circa i bandi emessi dalla comunità europea?

È ben noto che i finanziamenti alla ricerca non sono certo abbondanti in Italia. Abbiamo avuto ministri dell’università e della ricerca che ci hanno esplicitamente e pubblicamente invitato a cercare i finanziamenti in Europa; altri che hanno annullato i bandi per i progetti di ricerca “di rilevante interesse nazionale” perché il denaro serviva a placare lo sciopero dei camionisti; altri ancora che ho personalmente appurato nemmeno sapevano che la ricerca operativa fosse un settore della matematica. Ma il punto ancora più dolente è quello degli investimenti privati, che in Italia sono davvero scarsissimi. Forse la ricerca operativa è una delle discipline che riescono ad attirarne di più, proprio per la sua utilità e per le sue ricadute evidenti e misurabili. L’UE, invece, è ancora un punto debole. Nei programmi europei come Horizon 2020 e i precedenti programmi quadro, la ricerca operativa non è nemmeno menzionata. Nella classificazione delle discipline adottata dallo European Research Council la ricerca operativa compare tra le scienze sociali e umanistiche, perché evidentemente qualcuno lassù ha deciso di considerarla come una branca dell’economia. Ma vi compare non con la denominazione “management science”, che sarebbe ancora comprensibile, ma con la denominazione “operational research”, il che è davvero surreale. Negli USA la National Science Foundation ha una linea di finanziamento apposita interamente dedicata al finanziamento dei progetti di ricerca in “operations research”. Non è la quantità di denaro che fa la differenza, ma il modo in cui viene usato.

Cosa si potrebbe ragionevolmente fare, in Italia, nel breve e medio periodo, per migliorare la situazione della R.O./M.S.? Si sbilanci anche a farci sapere cosa auspica per una prospettiva a medio-lungo periodo.

Secondo me non servono provvedimenti ad hoc per la ricerca operativa; serve piuttosto una revisione seria di alcune normative, che parta dal riconoscimento della realtà e cioè che i soggetti della ricerca sono i ricercatori e i soggetti della formazione sono i docenti. Detto così sembra ovvio, ma secondo la normativa vigente i soggetti della ricerca e della formazione sono i dipartimenti universitari. Chi viene finanziato e valutato è il dipartimento, non il ricercatore o il gruppo di ricerca. Ma nessuno ha mai visto un articolo scientifico firmato da un intero dipartimento o un progetto applicativo realizzato da un intero dipartimento. I dipartimenti dovrebbero essere considerati per quello che sono nella realtà: strutture di servizio che servono a condividere personale tecnico-amministrativo e servizi essenziali e comuni a tanti gruppi di ricerca, che però lavorano in modo indipendente tra loro. Le richieste di finanziamento, l’attribuzione di risorse, la valutazione dei risultati, le proposte formative, l’organizzazione della didattica dovrebbero tutte avere come soggetti i singoli gruppi di ricerca (fatti da ricercatori che lavorano davvero insieme) e i singoli collegi didattici (fatti da docenti che insegnano davvero nello stesso corso di studi e lo fanno per loro scelta e per loro iniziativa, non perché incaricati da un dipartimento per “tappare un buco”).

Una volta chiarito questo, si tratta di liberare le iniziative dei singoli ricercatori e docenti dai vincoli della normativa attuale, responsabilizzando i singoli gruppi di ricerca e i singoli collegi didattici. Questo implica anche il superamento delle barriere non solo tra dipartimenti ma anche tra università. Una possibile soluzione potrebbe essere quella di conferire ai Centri di Ricerca Interuniversitari (CRI), di cui esistono già alcuni esempi, uno status paritetico e analogo a quello dei dipartimenti universitari. In questo modo le università potrebbero rimanere titolari dei CRI come lo sono dei propri dipartimenti, con la differenza che un dipartimento appartiene ad una sola università mentre un CRI apparterrebbe per definizione a due o più università. I CRI potrebbero essere regolamentati, ad esempio, in modo che: ogni professore e ricercatore possa liberamente scegliere se afferire ad un dipartimento o ad CRI; i CRI possano essere, al pari dei dipartimenti, gli organi accademici di riferimento per corsi di studio e dottorati di ricerca; ogni CRI possa elaborare, come un dipartimento, un proprio piano di sviluppo triennale che le sue università dovrebbero impegnarsi a sostenere ciascuna per la propria quota; i CRI siano soggetti a valutazione periodica come i dipartimenti; la costituzione di un CRI non sia vincolata ad una numerosità minima del personale accademico (o comunque non ad una numerosità minima molto alta, come quella necessaria per costituire un dipartimento), ma sia eventualmente vincolata (a seconda del tipo di disciplina) alla costituzione di un partenariato pubblico/privato che includa imprese o associazioni di imprese o altri enti non accademici.

Questa soluzione avrebbe diversi vantaggi a mio avviso. I gruppi di ricerca minoritari, che si trovano attualmente a languire senza prospettive di sviluppo nei propri dipartimenti, sarebbero sollecitati a prendere l’iniziativa e riorganizzarsi in modo efficace in CRI. Così si libererebbero moltissime energie individuali attualmente “compresse”, evitando la soluzione alternativa – di cui esistono già esempi – di arrivare alla creazione di dipartimenti universitari molto eterogenei, nei quali il principale o unico fattor comune degli afferenti è il desiderio di liberarsi dal proprio dipartimento di provenienza.

I rettori e i CdA delle università avrebbero a disposizione uno strumento utile per promuovere iniziative innovative superando la difficoltà, talvolta insormontabile, di dover acquisire il consenso di un dipartimento. Ciò aiuterebbe a superare il grave problema delle università “governate dal basso”.

Non si alimenterebbe un sistema della ricerca scientifica alternativo a quello delle università (come avviene ad esempio nel caso dell’IIT di Genova) e quindi non si alimenterebbero conflitti e divisioni. Le università rimarrebbero titolari delle attività dei CRI così come lo sono per le attività dei dipartimenti. Al contrario, potendo utilizzare lo strumento dei CRI, le università verrebbero responsabilizzate ed incentivate (ad esempio con quote premiali di punti-organico) nella transizione verso un modello organizzativo della ricerca più connotato in senso tematico e meno in senso territoriale. Oltretutto non sarebbe necessario prevedere ingenti finanziamenti aggiuntivi (come quelli destinati ad enti come IIT) se non eventualmente in una fase iniziale o a scopo premiale: di norma, i CRI potrebbero essere alimentati con il Fondo di Finanziamento Ordinario delle università partecipanti.

E ancora: molte sedi universitarie decentrate che erano state istituite negli anni Novanta per motivi di decentramento territoriale e che sono state chiuse negli anni recenti per la scarsa convenienza economica e per la bassa qualità delle loro attività di ricerca e didattica, potrebbero essere recuperate e diventare motori di sviluppo dei propri territori di provincia, non più come sedi secondarie di dipartimenti universitari ma come CRI con autonomia decisionale e con una forma organizzativa più coerente con la necessità di interazione con il mondo extra-accademico.

Infine, verrebbe offerta al sistema socio-economico una modalità nuova e concreta di interazione con il sistema universitario, grazie ad una forma organizzativa molto più aperta, flessibile, partecipativa e collaborativa (ad es., fondazione in partecipazione o altre forme di partenariato pubblico/privato) rispetto a quella di un tradizionale dipartimento universitario che non è proprio progettato per collaborazioni extra-accademiche. Così aumenterebbe il volume degli investimenti privati in ricerca, che attualmente si basa sulla capacità dei singoli ricercatori di attrarre finanziamenti verso i propri gruppi di ricerca, uno indipendentemente dall’altro anche quando lavorano sugli stessi temi, facendo capo ad amministrazioni universitarie diverse. Consentire ai ricercatori attualmente afferenti a dipartimenti di università diverse di aggregarsi in CRI tematici, darebbe loro la possibilità di formare “massa critica” più facilmente e di attrarre finanziamenti in modo assai più efficiente ed efficace rispetto a quanto possano fare restando sparpagliati nei rispettivi dipartimenti universitari.

Qual è il suo “sogno” oppure il suo progetto più sfidante e ambizioso nel campo della disciplina tecnico scientifica di cui lei si occupa? Come vorrebbe realizzarlo?

In questo momento il progetto a cui sto lavorando è proprio quello di un centro di ricerca e alta formazione interuniversitario, collocato in una città di provincia come Crema, in una sede universitaria ormai dismessa, in una disciplina trattata da “cenerentola” dall’accademia, come la ricerca operativa. Una sfida che più in salita di così non si può. Vorrei realizzarlo mantenendo uniti l’aspetto culturale di promozione della matematica applicata, rimediando ad una grave lacuna lasciata aperta dal sistema universitario attuale, e l’aspetto di sviluppo territoriale, che per un territorio piccolo circondato da capoluoghi più grandi non può prescindere da un deciso investimento sulla ricerca e sull’alta formazione. Siamo nell’economia della conoscenza e lo sviluppo dei territori, soprattutto quelli a più forte rischio di “cannibalizzazione” e di declino, passa necessariamente dalla ricerca scientifica e da tutte le sue positive ricadute.

Per lo sviluppo del progetto di cui ci ha raccontato, ha trovato sensibilità, attenzione, supporto, sinergia tra quali aree degli atenei, tra quali altri soggetti? Quali sono i nodi da affrontare per poter procedere ?

Sorrisi, apprezzamenti, incoraggiamenti, pacche sulle spalle e complimenti a vagonate. Ma non un centesimo o un impegno scritto a nessun livello, dal Comune al Ministero. Sto sperimentando l’abisso che c’è tra cittadini e imprese da una parte e istituzioni dall’altra. È paragonabile al divario che descrivevo prima tra Italia ed estero e penso proprio che quello dipenda da questo.

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