Ritratti del silenzio, in un interno. Vilhelm Hammershøi a Rovigo

Oscar Chiglia, "Isa di spalle al pianoforte"(1917-1918). Foto P.L. Bernardini

Si è conclusa il 29 giugno la bella, vasta mostra che Rovigo, a Palazzo Roverella, una delle sedi dell’Accademia dei Concordi – e anche della sua magnifica quadreria “permanente”, vanto europeo prima che veneto, o italiano soltanto – ha dedicato al pittore danese Vilhelm Hammershøi (1856-1916), e a suoi affini e seguaci. In fuga da quest’afa devastante, i suoi interni nordici – insieme all’armonica distribuzione degli spazi di Palazzo Roverella –, queste oniriche stanze pittoriche linde e solo lievemente tocche, ogni tanto, da umane presenze (anch’esse rarefatte, fantasmatiche, quasi), rinfrescano. Alquanto. Quando non raggelano, però. Un sottile vento angoscioso le pervade, un alito di infelicità. Ma non potrebbe esser altrimenti, come vedremo.

Una sala di Palazzo Roverella sede della mostra. Foto di PL Bernardini

Questa, per intanto, è la maggior monografica che da oltre un decennio celebri il grande danese. La prima di questa portata in Italia. Un evento unico, per chi ami la poetica dell’intérieur, questa mostra che parla anche, abbondantemente, di altri pittori della medesima temperie spirituale, “i pittori del silenzio tra Nord Europa e l’Italia”. Intérieur, si sa, è allo stesso tempo “interno” – quasi del tutto identificato con l’interno “borghese”, quello, per arrivare alle estreme sue rappresentazioni nell’arte contemporanea, del “Gruppo di famiglia in un interno” di Luchino Visconti, da leggersi (da guardarsi) insieme a “Ritratto di borghesia in nero” di Tonino Cervi, di pochi anni posteriore (quando ancora si parlava della borghesia poiché qualcosa come una “borghesia” ancora esisteva, negli anni Settanta del secolo scorso) – e “interiorità”. Ovvero, una dimensione affatto spirituale. La mostra è quasi un omaggio, ritardato di un anno, all’apoteosi di questa poetica che la critica francese fece per i suoi maggiori rappresentanti: è il 1924, per l’appunto, quando Albert Thibaudet pubblica Intérieurs: Baudelaire, Fromentin, Amiel, mettendo i punti sulle “i” alla generazione post-romantica della letteratura francese dell’”interiorità”, che avevo sostituito la dimensione dell’esteriorità, dell’evento, della narrazione storica e panoramica, di un Victor Hugo, tra gli altri. Vilhelm Hammershøi è un campione di un genere che ha un proprio mercato, oltre che una propria ideologia, una propria temperie spirituale. Per molti anni, ispirato prima che dagli italiani – con cui ebbe rapporti episodici, e non del tutto felici – dai grandi fiamminghi, Vermeer ovviamente incluso, egli si aggirò tra il mobilio e i giuochi di luce di appartamenti sinistramente vuoti, certamente borghesi, certamente, almeno in parte, lussuosi, meno pieni, forse, nello spirito protestante, di oggetti e chincaglierie gozzaniane, rispetto agli analoghi francesi, e italiani: asciutti, elementari, da design nordico – si potrebbe dire – ante litteram. Essenziali. Dove l’essenza è quella della “cosa” e dello spirito. Dove abita, di fatto, solo la luce.

V. Hammershoi, Interno (1905), particolare. Foto di PL Bernardini

Sono opere inquietanti, anche perché intese come arredi di quei medesimi interni che esse ritraggono, spietatamente: in un corto circuito anche estetico, come se quegli appartamenti ampi e ordinati, dagli alti soffitti candidi, altro non potessero contemplare, come loro decorazione, che rappresentazioni dei medesimi. Un giuoco di spettri, una spirale, forse, letale. E qui siamo nel territorio (ironicamente e gioiosamente, però, in questo caso) iniziato da un tardivo figlio del secolo dei Lumi, Xavier de Maistre: col suo viaggio “autour de ma chambre” del 1794 (in pieno Terrore, conveniva non uscire dalla propria camera per non ritrovarsi magari sotto la lama di una ghigliottina), che ebbe un discreto successo, anche in termini di imitatori. Il botanico ed esteta Alphonse Karr, nel 1851, ovvero in tempi relativamente più tranquilli – dopo la restaurazione europea post- 1848 – osava viaggiare “autour de mon jardin”, e mettere il naso, dunque, almeno parzialmente, se non fuori dalla propria proprietà, quanto meno fuori dalle mura della propria casa. Dalla Norvegia Ibsen raggela il mondo con i suoi “spettri” – creature soprattutto domestiche – nel 1881. Le angosce svedesi di Strindberg sono in gran parte pellegrine solo tra mura di casa, si nascondono sotto forma di scheletro in ogni armadio, sono Lari che la modernità ha fatto maligni, da benigni che originariamente erano. Alla fine, lo stesso Strindberg dedica uno dei suoi soffocanti drammi ad una “casa bruciata”, nel 1907: ma anche in questo caso le pareti domestiche, pur catarticamente demolite dal fuoco, non cessano di portare sventure ai protagonisti. La “casa”, quantomeno da Poe transitato nel Vecchio Continente proprio grazie a Baudelaire, è luogo d’incubo, prima che di sollievo. Il rapporto del pittore con Kierkegaard, del resto, è stato sottolineato proprio da un autore italiano, Roberto Nicodemo Spatari, che nel 2013 ha pubblicato presso Mimesis un adattamento teatrale de “Il diario del seduttore” del filosofo danese, accompagnandolo proprio con disegni di Hammershøi.

Hammershoi, La porta bianca. Foto di PL Bernardini

Nella cultura propriamente danese di Hammershøi l’angoscia è dunque “di casa”, legata al dramma del mondo protestante, della grazia cieca, divina, e della disgrazia esistenziale, dall’amarissima filosofia di Kierkegaard, filosofo della colpa e del peccato (che muore a Copenhagen nel 1855, un anno prima della nascita del pittore), e nelle spiazzanti, lugubre favole (solo fintamente da credersi per fanciulli) di Andersen, che invece muore nel 1875, e la cui produzione letteraria e storica, vastissima, risente moltissimo del dramma esistenziale di Kierkegaard stesso. Notturni nordici, silenzi boreali. Niente rimane della Danimarca allegramente razionalista, ironica, sognatrice di un Ludvig Holberg, tra i massimi rappresentanti del più genuino illuminismo europeo. Dove, soprattutto, si scendeva nel mondo sotterraneo in voli utopistici e non si rimaneva rinchiusi – per dir così – tra quattro (anguste più che auguste) mura. Sono dipinti che capitalizzano sulla luce nordica: a volte assente, a volte estremamente invadente, così diversa da quella mediterranea, come diversi sono gli interni nella storia delle rispettive pitture. Come ha scritto nel 1910 l’eccentrico William Ritter, “Le sérieux indicible de tout a quelque chose de protestant; tout ce qui est amour et chaleur s’est réfugié dans le cœur de qui peint ainsi ces choses” (citato da C. B. Perdersen, “De la lumière, des lignes et des poussières. Commentaire sur le «minimalisme » de Rayons de soleil ou Soleil, «Danse de la poussière aux rayons de soleil» (1900) de Vilhelm Hammershøi” (in “Nordiques”, 44/23, dossier speciale su “Le minimalisme nordique: architecture, arts, design et littérature”). Da notare, come piccola “ekphrasis”, che William Ritter, esteta e letterato svizzero, cattolico, omosessuale, esule volontario nella Praga comunista dopo la fine della Seconda guerra mondiale, maestro ideale di Le Corbusier, è ancora tutto da scoprire, come critico e autore poliedrico, dalla profondissima sensibilità, dalle intuizioni geniali. Noto forse ora soprattutto per lo splendido, folle ritratto che ne fece Mario Segantini nel 1903, rendendolo quasi un San Sebastiano surrealista.

Molto opportunamente il curatore della mostra rodigina Paolo Bolpagni – cui si deve anche l’ottimo catalogo – inserisce l’artista danese in una poetica europea del silenzio, delle città “morte” (Bruges), del decadentismo e simbolismo belga (Rodenbach nasce nel 1855, un prima del pittore danese), le “città del silenzio” di D’Annunzio, dall’”Elettra” del 1903 fino all’edizione parigina del volume omonimo, del 1926, fino arrivare magari al misconosciuto genio malinconico toscano Aleardo Kutufà d’Atene (riscoperto di recente da Paola Cagianelli), di “Elegia di città morte”, volume in mostra accanto all’in-quarto dannunziano. Peraltro, il rapporto di Hammershøi con l’Italia non è fondamentale, non ostante alcuni viaggi. Il suo soggiorno più significativo data 1902-1903: arriva a Roma con la moglie Ida nell’ottobre 1902 e vi rimane fino al febbraio 1903, visitando anche Napoli e Paestum, oltre ad altre località meridionali. Eppure, il suo unico, enigmatico, vaporoso dipinto “italiano” è l’interno di Santo Stefano Rotondo al Celio. La nota chiesa nazionale d’Ungheria, fitta di rapporti col mondo germanico, di riferimenti esoterici negli arredi e nella sua stessa conformazione, frutto di evoluzione millenario. Tutt’altro, come dice la didascalia della mostra, che una “chiesa semisconosciuta”. Perché questa scelta? Che cosa intendeva davvero trasmettere l’artista con quest’opera, a chi voleva parlare? In ogni caso, il mondo italiano è molto ben rappresentato, e mostra di dialogare ampiamente con quello nordico. Da Oscar Ghiglia a Mario de Maria, a Vittore Grubicy de Dragon (con la sua Anversa ritratta come un interno); a Giuseppe Ar, nativo di Lucera, giustamente valorizzato alcuni anni fa da Sgarbi, di una generazione successiva; e come Umberto Prencipe, cittadino nobile di Napoli.

Hammershoi, Lue del sole nel salotto III (1903). Foto di PL Bernardini

Una mostra dunque con infinite aperture, suggestioni – anche filmiche, con Carl Dreyer, il regista danese scomparso nel 1968 che trarre direttamente ispirazione da Hammershøi per il suo ultimo film-testamento, del 1964, “Gertrud” (una mostra sui due autori danesi si era tenuta a Barcellona, al “Centre de Cultura Contemporàina”, nel 2007) – e fotografiche: chiude la mostra una serie di foto a colori di un fotografo spagnolo contemporaneo, Andrés Gallego, classe 1983. Una rivisitazione “moderna” degli interni di Hammershøi, solo lievemente meno angoscianti. Un ottimo aggiornamento rispetto alla mostra – tenutasi a Monaco di Baviera e Copenhagen nel 2012 – “Hammershøi and Europe”, curata da Kasper Monrad. A Tokyo v’era stato un’altra importante monografica nel 2008, “The Poetry of Silence”. Per gli specialisti, consiglio la lettura di un’ottima monografia, tradotta in inglese dalla Yale University Press nel 1992, di Poul Vad, “Vilhelm Hammershoi and Danish Art at the Turn of the Century”, che bene illustra tutto il contesto artistico e sociale della Danimarca del pittore.

Schermo a pavimento per la proiezione del film di Dreyer dal titolo “Gertrud” (1964). Foto di PL Bernardini

Rovigo città del silenzio, dunque? Non la pose tra le 25 elette D’Annunzio, che invece principiò proprio con Ferrara, per porvi poi Padova, Ravenna, ma anche Vicenza Brescia Bergamo, quasi a delineare una costellazione veneto-lombarda e romagnola cui la stella o stellina di Rovigo sembra però appartenere di diritto. Certamente, con questa mostra ha dimostrato – mi si perdoni il giuoco di parole – ancora una volta sia di non essere per nulla una periferia, sia d’esser ben poco silenziosa; ma anzi, eloquente e loquace, nel mondo dell’arte (e non solo in quello).

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