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RIVISTA Plurisettimanale Online > Registr. Trib. PE n. 02/2016 ISSN 2611-626X editata da DOMUS EUROPA_Centro Studi di Geocultura

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Si vis pacem, para artes. La mostra “De bello. Notes on War and Peace” a Bergamo

ARTESi vis pacem, para artes. La mostra “De bello. Notes on War and Peace” a Bergamo

Per F.B.

Da tempo Bergamo bassa cerca d’elevarsi, ne ha tutto il diritto. Lo spazio espositivo gres art 671, nato dalla riconversione intelligente e armonica di spazi industriali, è frutto pienamente riuscito di tali sforzi. Forse gioverebbe, in via san Bernardino, indicare meglio la collocazione del complesso, un po’ decentrato: per evitare che i visitatori debbano magari arrostire vagolando sotto l’afa di giugno (e sopra l’asfalto rovente) – propria di Bergamo bassa, come di tutta la “bassa” a dir il vero – per trovarla. Ciò detto, una volta giunti la sorpresa è grande, compensa pienamente le fatiche.

Il complesso è davvero bello, funzionale, moderno. “De bello” è una mostra intelligente, aperta fino al 12 ottobre 2025, in spazi – 2000 mq — che essi stessi si prestano a ogni possibile giuoco di visione e prospettiva, creando angolature, alternanze di luci e d’ombre, squarci di luce trasversali che invitano il fotografo (anche quello dilettante) a sbizzarrirsi, sotto una cappa grigio-industriale che ben s’addice al tema: il colore del piombo. La guerra. Dunque. Collocata oramai in margini dell’Europa – non credo che si possa piazzare, pur con tutta la buona volontà, l’Ucraina al centro di essa, se non forse per l’antica Galizia invenzione dell’Impero absburgico, su cui rimando al classico libro di Larry Wolff, storico americano dell’Europa “minore” – e nelle periferie del mondo, la guerra continua ad imperversare, lo farà forse fino alla fine dell’umanità.

L’arte non può porvi rimedio, certo: ma può stigmatizzarla, da un lato – sfidando la nozione anche teologica di “bellum iustum”…esiste davvero? – e mostrarne gli orrori. Può anche indurci a riflettere sull’azione individuale e le decisioni individuali nel contesto della bieca e cieca volontà degli Stati – ad esempio sulla figura morale del “disertore”, di colui che o diserta o non ubbidisce agli ordini (che è poi la stessa cosa); come succede in un lancinante video collocato nell’ultima sala della mostra, una specie di “videogioco del disertore”, di immenso patto visivo. Il video-istallazione “How to Disappear” del collettivo Total Refusal. Ambientato nel videogioco Battlefield V, ne sovverte gli schemi e il messaggio. Cantava l’anarchico Fabrizio de André in “Girotondo”: “Chi ci salverà? Ci salva l’aviatore che non lo farà ci salva l’aviatore che la bomba non getterà…” Il “thema” è quello. Poi lo si re-interpreta con i mezzi, efficacissimi, di oggi.

Si può essere d’accordo o meno, ma la mostra invita – ferocemente – alla riflessione. Divisa in cinque sezioni tematiche – “pace apparente”, “allarme”, “guerra”, “macerie”, “resistenza”, l’esibizione unisce forme d’arte tradizionali, compresi quadri di guerra rinascimentali, con i “new media” artistici, di ogni specie e genere. Davvero immersiva, contempla anche giganti e autori affermati: Alberto Burri, Claire Fontaine, Anselm Kiefer, Joseph Beuys, Andrea Gastaldi (pittore del Risorgimento), Boris Mikhailov, Arcangelo Sassolino. Ma sono le sorprese, gli esordienti o i non noti, almeno in Italia, che stupiscono.

Dina Fatum, “Burning City Concrete Memory”. Foto di P.L. Bernardini

A cominciare dall’ucraino Dima Fatum, che è soprattutto uno “street artist” e che, ad inizio mostra, è rappresentato con la scultura “Burning City: Concrete Memory” del 2025, dove un gruppo di edifici identici, in mattoncini di cemento, in fila, alcuni rovinati dalle bombe, sono allineati in due file parallele in forma di candele (sul tetto è posta la candelina), con un impatto visivo immediato. Vi sono poi installazione audio-video come i pannelli di Daya Cahen, del 2010, “Birth of a Nation”, che raccontano la vita e il training marziale di giovanissime cadette russe della Scuola Cadette n.9. La video-installazione “Pantelleria” del 2022, invece. del gruppo MASBEBO, ci porta nell’insensato bombardamento “finto” di Pantelleria riconquistata dagli alleati dopo quello vero e terribile che ebbe luogo tra l’11 maggio e il 9 giugno 1943. Un bombardamento che colpì di nuovo il centro e fu inscenato per poter essere ripreso a scopo propagandistico dai fotografici e cineoperatori, dal momento che essi non erano riusciti a riprendere quello vero. Cristina Lucas trasforma in tessuti ricamati con numeri (le vittime) diversi bombardamenti su civili avvenuti a partire dal 1912. Nove pannelli-teli da una serie più ampia nata da un progetto intitolato “Unending Lighting”.

Cristina Lucas, “Unending Lighting”. Foto di P.L. Bernardini

Poi vi sono opere celebri, come la foto in formato gigante di Alfredo Jaar che vede Lucio Fontana “visitare” il proprio studio nel centro di Milano – ridotto ad una semplice rovina – nel 1946. Un capolavoro di Anselm Kiefer, del 2021 – l’artista tedesco ha compiuto quest’anno 80 anni – campeggia in un angolo ben evidenziato. “Der Morgenthau Plan”, un “libro” alto un metro e mezzo con diverse pagine aperte, “emulsione di gelatina d’argento su foglia d’oro, carta e cartone, con rilegatura in tela per un totale di 24 pagine”, ci fa riflettere su una delle tante follie che emergono durante le guerre (anche in tempo di pace, peraltro, ma forse vi si fa meno caso). L’americano Henry Morgenthau Jr propose nel 1944, in piena guerra, un piano di “decrescita felice” (per dirla con la locuzione che ebbe qualche spazio mediatico da noi fino a poco fa) per la Germania: distruggere tutte le sue industrie e riportarla alla dimensione di Paese prettamente agricolo come del resto fu fino almeno ai primi dell’Ottocento. Ovviamente non si fece nulla ma Goebbels lo utilizzò per rinfocolare, nel Reich morente, la propaganda antiamericana.

Marina Abramović, artista serba, ora naturalizzata statunitense, è tra i grandi nomi della mostra, “madrina della performance art”, classe 1946, di costante e meritorio impegno politico, già da giovanissima, nei sulfurei anni Sessanta. Qui con “The Family A”, una fotografia a colori in grande formato, riprende se stessa con una bambina armata sulle ginocchia, una bimba dai tratti orientali che sembra quasi a proprio agio impugnando perfettamente un fucile d’assalto di ultima generazione. Un’immagine angosciante. Ma dato che l’artista di Belgrado ama coinvolgere il pubblico oltre che se stessa nelle proprie opere, ho colto l’occasione per un autoritratto “in situ”.

Un percorso, dunque, pieno di sorprese, per quanto il tema non sia dei più ameni. Rovine, paura, attesa della distruzione, opere ed oggetti vari, anche spiazzanti. Il tutto in una scenografia quasi surreale, ma ben studiata. Le seggioline davanti alle installazioni video sono ognuna diversa dall’altra, come ripescate da un bombardamento, sottratte esse stesse alle macerie. Una sembra dell’asilo. Morti i bimbi, rimangono le loro seggioline? Davvero, intrigante. Poi all’uscita magari si vedono le scritte cittadine, la “street art” dal vivo, i messaggi improvvisati sui muri o sui cartelli stradali, con altro occhio. E l’occhio “cade”, mi cade, su una scritta eloquente di condanna della tragedia di Gaza. Avrebbe potuto ben figurare nella mostra.

Un cartello stradale in via San Bernardino. Foto di P.L. Bernardini

Complimenti dunque al gruppo 2050+ e a gres art 671, che hanno allestito “De Bello”. Uno stimolo, infine, per gli storici dell’arte: quando è avvenuto davvero il punto di svolta, quando l’arte ha cessato di esaltare la guerra, e a cominciato a stigmatizzarla? Con “Guernica”? Domanda complessa, risposta banale. In realtà, occorrerebbe andare molto più indietro. Agli storici (dell’arte, ma non solo) l’ardua risposta.

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