FRONTIERE

Siamo veramente nel 1939 e Putin va fermato prima che sia troppo tardi?

Il 22 giugno 2022 Jonathan Littell ha pubblicato un lungo articolo, che occupa un’intera pagina sul Corriere della Sera, in cui lancia un appello per una mobilitazione che porti alla sconfitta della Russia nella guerra contro l’Ucraina. Littell è uno scrittore americano, naturalizzato francese, che ha trascorso sette anni nei Balcani collaborando con una Ong che si occupa di lotta alla fame. Il suo primo libro, Le benevole, uscito nel 2006, fu un successo mondiale che lo impose all’attenzione della critica e del pubblico. È sicuramente un intellettuale impegnato e ha mostrato con le sue scelte personali di essere coerente con i princîpi che professa. Una delle sue qualità è quella di usare un linguaggio chiaro e diretto e formulare le sue tesi senza troppi giri di parole. Detto questo, però, dobbiamo chiederci se lo scontro militare diretto con la Russia sia la strategia più intelligente per risolvere l’impasse strategico attuale e dare un futuro all’Ucraina.

Littell critica Kissinger per aver consigliato Kyiv di accettare compromessi territoriali e Macron per la sua politica volta a “non umiliare la Russia”. Secondo lo scrittore americano “per Putin, come per il suo ministro Lavrov, la menzogna è al cuore della sua formazione e rappresenta uno strumento naturale di lavoro”. Con i russi non si possono fare accordi, né accettare compromessi visto che “Putin è un uomo che nel XXI secolo ha scatenato una guerra del XX secolo per raggiungere obiettivi del XIX secolo”. Non siamo nel primo dopoguerra, quando il Trattato di Versailles umiliò colpevolmente la Germania, aprendo la strada al trionfo del nazismo. “Oggi –continua Littell- non è più il 1918, bensì il 1939. E come per il Terzo Reich di Hitler, il cammino verso la pace prima o poi esigerà il rovesciamento del regime di Putin, che non corrisponde alla Russia e al suo popolo”. Questo è un esplicito e chiarissimo appello per un regime change che getti il nuovo zar nella polvere e apra all’incolpevole popolo russo un’era di pace, democrazia e, soprattutto, prosperità.

Il ritorno al potere in Afghanistan dei fanatici talebani mostra quanto fosse velleitaria e ipocrita la volontà occidentale di portarvi la democrazia. Nella foto, due donne col burqa.

Le armate del bene che devono mettersi trionfalmente in marcia per portare finalmente la libertà a Mosca sono, ovviamente, quelle americane, sostenute da un’antichissima democrazia, da un’opinione pubblica aperta e progressista e da un’amministrazione colta, preparata e cosmopolita, che scalpita per mostrare quanto gli USA siano veramente il “faro della speranza” per il mondo intero. D’altronde, possono mostrare con orgoglio gli splendidi risultati dei multiformi interventi militari lanciati dopo la Seconda guerra mondiale: il Vietnam, dopo il salvifico intervento USA, è diventato un modello imitato in tutto il mondo; rimosso il feroce dittatore Saddam Hussein, l’Iraq, la terra dove nacque la nostra civiltà, è tornato agli splendori di Ninive e Babilonia; vent’anni di sagace e generoso intervento statunitense hanno trasformato una landa desolata come l’Afghanistan in una specie di terra promessa, un vero e proprio Eden per la tolleranza e la libertà delle donne. A dire il vero, in Iran c’era una democrazia, ma forse non era abbastanza perfetta per i gusti degli USA e così il primo ministro Mohammad Mossadeq fu rovesciato da un golpe organizzato dalla CIA e dall’intelligence britannica.

Non sono a conoscenza di quali siano state le letture di uno scrittore colto e sensibile come Littell ma, temo, che Machiavelli non sia tra gli autori con cui ha una maggiore familiarità. La priorità in questa guerra è il futuro del popolo ucraino, che ha mostrato sul campo la voglia di democrazia e indipendenza, e per raggiunger questo obiettivo è necessaria una strategia coraggiosa e creativa che sostenga militarmente Kyiv ma non arrivi allo scontro diretto con Mosca perché, a quel punto, il prezzo sarebbe inaccettabile, per tutti.

Galliano Maria Speri

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