Spannaus: perché i populismi sono all'arrembaggio

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Uscito da pochi mesi, il nuovo libro di Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori” (Mimesis, 115 pagine, 10,00 euro) indaga sul fenomeno politico più attuale e, si direbbe anche più globale. Ne riportiamo un’ampia citazione dall’Introduzione:

La rivolta degli elettori

di Andrew Spannaus

Nel 2016 il mondo è cambiato. La marcia della globalizzazione, diretta alla scomparsa dei confini fisici ed economici, ha subito una battuta d’arresto, marcata da una serie di eventi politici che indicano l’inizio della fine di un’epoca.

I due avvenimenti che maggiormente hanno sconvolto il mondo sono stati: la Brexit, quando gli elettori del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea, e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, dopo una campagna elettorale in cui l’élite politica e finanziaria degli Stati Uniti è stata presa di mira come non mai negli ultimi quaranta anni.

In entrambi i casi, si è trattato di una vera e propria rivolta degli elettori, un’insurrezione della “gente normale” contro le strutture del potere politico e mediatico, che ha sconvolto gli equilibri politici di due dei Paesi guida del mondo occidentale. E la rivolta non è finita: il suo peso cresce anche nell’Europa continentale, dove aumentano costantemente i consensi per i movimenti di protesta e i candidati pronti a mettere in discussione il sistema che fino a poco tempo fa sembrava inattaccabile, l’Unione europea e il superamento degli interessi nazionali.

In realtà la protesta era iniziata ben prima del 2016, per esempio in Italia, con il successo strepitoso del Movimento Cinque Stelle nelle elezioni del 2013, un movimento che fa della Rete e dei meetup, gli incontri tra cittadini, il suo fulcro, allo scopo di mandare ‘a quel paese’ la classe politica. L’Italia − come altre volte nella storia − ha anticipato una tendenza poi diffusasi nel mondo occidentale.

Eppure queste avvisaglie non sono state colte dall’establishment politico. Il diffuso senso di rigetto verso le istituzioni, cresciuto sul terreno fertile di una crisi economica che ha messo pesantemente in discussione il benessere conquistato dal mondo occidentale nel periodo del dopoguerra, sarebbe dovuto servire da campanello d’allarme per le classi dirigenti. Ma non è stato così.

A Washington come nelle capitali europee, a Bruxelles e a Francoforte, si è cercato di minimizzare il problema; o perlomeno di bollarlo come un rigurgito reazionario da parte di chi si rifiuta di fare parte del nuovo mondo, un mondo fatto di valori condivisi e con un’economia globalizzata in cui i vecchi meccanismi non funzionano più.

La gente è arrabbiata con Washington o con Bruxelles? È perché non capisce i cambiamenti in corso, si è pensato nei corridoi del potere. L’idea di fondo è che si tratti di cambiamenti inevitabili, a cui tutti dovranno adeguarsi in un modo o nell’altro: non si può tornare indietro, al nazionalismo, al protezionismo, all’industria manifatturiera, alla chiusura dei confini.

Buona parte dei politici ritiene che non vi sia alternativa alle politiche della globalizzazione: sarebbe inutile pensare di rispolverare vecchie strutture sociali, economiche e politiche; i cambiamenti avvenuti sono troppo profondi, hanno impostato un nuovo modello con cui tutti noi dovremo prima o poi fare i conti.

Ma il popolo ha idee diverse. Grazie all’opportunità di esprimersi attraverso un voto democratico, gli elettori hanno mandato un messaggio di forte protesta, respingendo l’inevitabilità del modello propugnato dalla classe politica e mediatica e sostenendo candidati populisti, demagoghi, provocatori. Di fronte alla rabbia di una grossa parte della popolazione − quella più colpita dall’indebolimento delle attività produttive, quella che si sente sotto attacco a livello economico e sociale, per la perdita del lavoro ben retribuito e la concorrenza dei paesi più poveri e degli immigrati −, gli appelli alla moderazione sono stati inutili, se non controproducenti.

Chi è arrabbiato con la classe politica e chi non si fida dei mass media si accanisce molto di più quando viene bollato come ignorante, razzista, reazionario: sicuramente ci sono persone di questo tipo, ma non in numero sufficiente per produrre i risultati politici registrati negli ultimi mesi. Inoltre atteggiamenti preoccupanti tra gli elettori vengono alimentati proprio dalla decisione − cosciente o meno − di ignorare i problemi posti da chi è stato lasciato indietro dal ‘nuovo mondo’.

È in questo processo di rivolta degli elettori che va ricercata la causa di ciò che è successo nel 2016, e le indicazioni di ciò che potrebbe succedere nei prossimi anni.

Ormai Donald Trump è alla Casa Bianca, mentre l’establishment americano fa di tutto per farlo rientrare entro i confini dei modelli politici degli ultimi decenni, nel bene e nel male. In Olanda si è già votato: il Partito per la Libertà di Geert Wilders non ha fatto il salto tanto atteso, ma rimane una forza politica importante nel paese. Anche in Francia l’ala populista è stata fermata, ma solo al secondo turno, con la sconfitta di Marine Le Pen. In Germania [il voto ha dimostrato l’insofferenza della popolazione verso i partiti dominanti, anche se i populisti di Alternative für Deutschland (AfD) non potranno influire direttamente sull’attività di governo]. Forse il paese in cui i populisti hanno più possibilità di andare al potere è proprio l’Italia, ma le istituzioni hanno fatto di tutto per rimandare il voto e dare il tempo di rafforzarsi ai partiti storici.

Ci sono dunque speranze per evitare il peggio?

È l’atteggiamento del serrare i ranghi, del ‘resistere’ alle istanze di protesta senza ammetterne le ragioni, che in questo momento rappresenta il maggiore pericolo per il futuro del mondo occidentale. Il malcontento ha fondamenta reali e l’unico modo di evitare che le parti peggiori del populismo prendano il sopravvento è di affrontare il problema alla radice. Occorre una profonda revisione, soprattutto delle politiche economiche che hanno portato alla situazione attuale, prima che il malcontento sfugga al controllo.

Le proteste dell’operaio che ha perso il lavoro, del precario che non riesce a mantenere la propria famiglia, del giovane che non vede prospettive per il futuro hanno una radice comune: la perdita di potere reale da parte delle istituzioni politiche nazionali e la conseguente distruzione dell’economia produttiva per mano della finanziarizzazione.

In questo libro si analizzeranno non solo i problemi visibili che hanno provocato gli sconvolgimenti politici in atto, ma anche i processi di più lungo periodo che hanno dato origine a questo periodo di turbolenza e incertezza. Si guarderà al ruolo dello Stato nazionale e ai tentativi di superarlo da parte di un’élite globalizzata. E si approfondiranno le motivazioni dietro la creazione dell’Unione europea, una struttura nata come strumento per costruire la pace tra le nazioni europee e poi trasformatasi in un organismo sovranazionale che mira a superare definitivamente la sovranità degli Stati membri. 

Ci chiederemo a che cosa serve l’Europa, se valga la pena − e se sia possibile − proseguire nella costruzione di un superstato continentale, oppure se sia fondamentale fare un passo indietro nell’architettura istituzionale, pur senza fermare la collaborazione tra gli Stati membri.

Ciò che interessa maggiormente è come l’esistenza stessa dell’Unione europea sia messa in discussione dalla protesta popolare in tutto il mondo occidentale. Tracceremo dunque uno scenario, tutto sommato ottimistico, per il ritorno alla politica e a un futuro di pace e di prosperità per l’Europa e l’Occidente, basato sui principi che hanno generato pace e prosperità in passato, e che oggi sono stati disattesi, applicati male e spesso distorti per fini che poco hanno a che fare con il bene della popolazione.

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