FRONTIERE

The Lancet: ritrovare la solidarietà per affrontare il fine vita

Leonardo Servadio

Con la pandemia Sorella Morte è tornata di prepotenza alla ribalta, pur nelle nostre società occidentali che sembrano volerla relegare nel dimenticatoio. E l’aspettativa di vita, che nei decenni passati è andata sempre crescendo, appare più contenuta e persino si riduce, soprattutto in alcune parti più disagiate delle nostre società. Sono questioni che affronta lo studio sul “valore della morte” avviato da una Commissione costituita tre anni fa dalla rivista scientifica britannica The Lancet. Il primo rapporto di tale Commissione, che è di carattere internazionale e ampiamente interdisciplinare, è stato pubblicato il 31 gennaio ed è intitolato “Riportando in vita la morte”: un paradosso, inteso a scuotere le coscienze di chi è abituato a esorcizzare e nascondere la ampie problematiche collegate alla fine della vita. Ma un paradosso solo apparente, perché la vita e la morte sono intimamente legate ed è naturale che l’una consegua all’altra. Invece oggi, riferisce The Lancet, dove maggiori sono le ricchezze c’è chi ambisce a lasciarsi indietro queste condizioni che sono intese solo come limiti da superare. Si giunge così agli estremi della crioconservazione dei cadaveri in attesa che la tecnologia riesca a riportarli in vita, cosa che avviene soprattutto in California, mentre, a conseguenza del non voler accettare la morte come fatto naturale, si è diffusa un po’ ovunque nei paesi avanzati la tendenza a esercitare pratiche mediche che si traducono a volte in cure costose quanto inutili o che sconfinano nell’accanimento terapeutico.

Il rapporto con la morte è sbilanciato poiché i ricchi sono oggetto di cure eccessive, mentre i poveri, la maggioranza, ricevono poca attenzione o non ne ricevono alcuna” riferisce The Lancet, e questo vale, sia per i paesi più disagiati, sia per le persone più bisognose che vivono nei paesi più agiati. E con la pandemia tali condizioni si sono aggravate. Ne viene che il modo in cui nel mondo ci si pone di fronte al passaggio estremo della vita offra un’immagine “sbilanciata e contraddittoria”: scopo del rapporto britannico è di descriverla nella sua complessità e di proporre soluzioni per superare o ridurre le sofferenze collegate alla morte.

Il sovrapporsi delle crisi economiche e sanitarie negli ultimi quindici anni ha reso tanto più necessario affrontare il problema. Basti pensare che l’aumento dell’aspettativa di vita in un paese avanzato come la Gran Bretagna è rallentato tra il 2011 e il ‘20, e in quel periodo per le donne che vivono nel 10 percento dei quartieri più poveri la durata media della vita si è ridotta. Negli USA già dal 1990 l’aspettativa di vita ha preso a contrarsi per le donne con meno di 12 anni di scolarizzazione. E ci si attende che a conseguenza della pandemia “nella maggioranza dei paesi si ridurrà di più di un anno”: negli USA tra il 2018 e il ’20 è già caduta in media di 1,87 anni, e con una distribuzione molto diversificata; la riduzione infatti è stata di 3,88 anni per la popolazione di origine ispanica, di 3,25 anni per gli afroamericani e di 1,36 anni per i bianchi non ispanici. In Inghilterra in quel lasso di tempo è passata da 80 anni a 78,3 anni per i maschi, e da 83,7 anni a 82,7 anni per le femmine, con una riduzione più marcata per le parti più disagiate della società.

Ma la morte non è una malattia. È certamente un problema che riguarda la medicina, nella misura in cui questa la può allontanare nel tempo, ed è certamente un problema economico, nella misura in cui una società ricca permette condizioni di vita più salubri. Ma è anche un problema sociale e culturale, pertanto non può essere lasciato solo alla pratica medica e ospedaliera: The Lancet si focalizza in particolare su queste tematiche. Con la pandemia si sono viste persone morire in un letto di ospedale, trattate da operatori sanitari nascosti da scafandri, gettate nello sconforto della solitudine nel momento della maggiore fragilità: l’essere umano agonizzante affidato alle macchine (i respiratori) lontano dalle cure amorevoli di familiari ed amici. E questa è un’espressione dei paradossi in cui ci si trova a seguito delle tecnicizzazione del rapporto tra la vita e la morte.

Nelle società meno avanzate v’è un rapporto più umano: i morenti sono circondati e accompagnati dall’affetto delle persone a loro care. Non muoiono soli. Mentre la medicalizzazione della morte, anche al di là degli estremi conosciuti con la pandemia, porta all’isolamento delle persone abbandonate negli ospedali o negli ospizi. È infatti in queste strutture che nei paesi più ricchi la maggioranza delle persone conclude la propria esistenza terrena, spesso lontano dai familiari: in Canada o Corea del Sud solo il 13 percento delle persone muore in casa propria, in Gran Bretagna il dato è di circa il 21 percento e di poco superiori sono le percentuali di altri paesi (l’Italia tra i paesi avanzati è quello con il tasso più elevato: del 44,4 percento). Mentre in un paese come il Messico, considerato di reddito medio, oltre il 50 percento delle persone muore in casa, accompagnato dall’ambiente familiare.

La tendenza all’isolamento e alla tecnicizzazione è causa di sconforto per le persone: un altro paradosso al riguardo è che proprio nei paesi più avanzati, dov’è più consueto che le persone si sentano gettate nella solitudine, maggiore è la tendenza a istituzionalizzare il suicidio assistito, che in fondo è l’altra faccia del rifiuto ossessivo della morte come fatto naturale. Invece la conoscenza e la pratica delle cure palliative può aiutare ad affrontare serenamente il passaggio estremo, soprattutto se si realizzano condizioni in cui, come avviene tra i popoli che sono considerati meno sviluppati, amici e parenti si stringono attorno al morente.

The Lancet propone cinque punti su cui insistere per riaprire un dialogo pacato con Sorella Morte: affrontarne a viso aperto i problemi, non nasconderli come spesso si tende a fare; intenderla come un processo relazionale e spirituale invece che come un semplice fatto fisiologico; promuovere il formarsi di reti di persone desiderose di curarsi delle sofferenze altrui; favorire che se ne parli come un fatto a tutti noto e accettato; riconoscere che anche la morte ha un valore (che sarebbe infatti la vita se fosse illimitata?). Per questo propone quella che chiama una “utopia realistica”, dando come esempio quanto avviene nello stato del Kerala, nell’India meridionale.

Qui nel 1993 due medici e un volontario hanno costituito un’associazione volta ad assistere con terapie palliative e accompagnamento sociale le persone senza speranza di vita, “sostenendo che morire a seguito di un malattia è un problema sociale che ha anche implicazioni mediche, invece della visione più diffusa e diametralmente opposta” che mette l’approccio medico in primo piano dimenticando gli aspetti sociali. Il personale sanitario e i volontari assistono non solo le persone affette da malattie incurabili ma anche anche le loro famiglie, che spesso a seguito della scomparsa di un congiunto subiscono pesanti conseguenze, sia sul piano affettivo, sia sul piano economico. Tale assistenza è fornita gratuitamente e serve anche a comunicare quelle nozioni che permettono di migliorare la qualità della vita e di prevenire i rischi per la salute: questo impegno infatti ha portato a ridurre il numero dei fumatori e di coloro che masticano noce di betel, una sostanza eccitante dagli effetti dannosi. A imitazione di questa associazione, e grazie all’opera di promozione svolta dal Collaborating Centre for Community Participation in Palliative Care and Long Term Care dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, altre simili ne sono sorte in India, Thailandia, Bangladesh, in Gran Bretagna e altrove.

È interessante notare che col suo articolato studio The Lancet è giunto alle stesse conclusioni cui erano giunte sin dall’epoca tardo antica le Compagnie della Buona morte e poi ancora le Misericordie che, di origine medievale e radicate nel cristianesimo, sono tutt’ora attive nel promuovere la “civiltà dell’amore” e la “cultura della carità” come disse Giovanni Paolo II nel 1985. Infatti se “in principio è la relazione” come ha scritto Martin Buber, anche alla fine quel che conta è la relazione. La fine e l’inizio vanno posti in continuità nella logica della vita che trascende la morte: col coraggio e la capacità di accettarla, non di voltarsi dall’altra parte. Con quell’atteggiamento solidale che migliora il vivere, oltre che il morire.

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In Italia

Il rapporto di The Lancet getta uno sguardo su tutto il mondo, ma in particolare su quello anglosassone. A seguito della sua pubblicazione, di cui diamo conto qui sopra, abbiamo discusso alcuni degli argomenti in esso trattati con un esperto di bioetica e da tale incontro abbiamo tratto queste considerazioni che si riferiscono più in specifico alla situazione in Italia:

Anche in Italia individuare il giusto limite tra dovuta terapia e eccesso di cura è un problema di difficile soluzione, perché i medici agiscono secondo il criterio dell’appropriatezza clinica, invece di pensare a somministrare cure adeguate e questo ha conseguenze a volte inaccettabili per il paziente. Quest’ultimo infatti ha altri criteri oltre a quello dell’appropriatezza ma spesso, purtroppo, sono i suoi stessi parenti a spingere sulla strada del massimo delle cure, pure quando sono inutili.

Senza contare che l’accanimento terapeutico facilmente deriva dalla semplice prassi: se il radiologo individua una patologia, automaticamente lo specialista procede con la terapia prevista. Tuttavia oggi si cerca di contenere tale tendenza, perché protagonista delle cure dev’essere il paziente, come riaffermano le leggi dello Stato e della Chiesa.

Ovviamente è assai complessa la valutazione di quali siano le cure più appropriate per la singola persona. Sarebbe più semplice se vi fosse un dialogo più aperto e pacato tra medici e pazienti. Ma dovrebbe essercene il tempo, a partire da quello di cui dispongono i medici di famiglia che sono i primi a indirizzare verso gli approcci terapeutici: ma ne hanno troppo poco, e sono sempre assillati dai minuti contati.

In questa situazione, del fine vita anche in Italia si parla troppo poco, e questo rende più difficile affrontarlo: per i pazienti, le loro famiglie e per gli stessi medici. Eppure vi sono norme che consentirebbero di farlo con serenità e sono tra le migliori al mondo: la legge sulle cure palliative del 2010, quella sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento del 2017. Esiste poi la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 che a certe condizioni consente anche di scegliere il suicidio assistito.

Tali norme garantiscono i diritti del paziente e rendono inutile proporne di nuove, ma sono poco note e nell’opinione pubblica resta diffusa l’idea che si sia costretti a patimenti estremi, quasi fossimo nel medioevo. Inoltre, ovviamente la legge non basta: è necessario che vi siano anche un’informazione onesta e una maggiore attenzione da parte delle istituzioni. Che invece sono carenti. Un esempio: purtroppo sinora solo a Milano è stata istituita una cattedra di medicina palliativa, mentre nel resto dell’Italia tali cattedre mancano.

Eppure le cure palliative sono importanti per permettere di affrontare con maggiore serenità l’ultimo tratto del percorso di vita. Se mancano, o se non ve n’è una adeguata cognizione, il rischio è che si ecceda nel ricorso ad altre pratiche quali il suicidio assistito o l’eutanasia.

Soprattutto perché chi si sente solo ha maggiori difficoltà ad affrontare i momenti estremi della vita. E questo è un problema per una società sempre più vecchia e con persone sempre più isolate. L’esercito dei single oggi trentenni o quarantenni tra qualche decennio sarà un esercito di anziani soli e pertanto più fragili. Anche per questo sarebbe importate che si promuovesse un più aperto dialogo tra medici e pazienti: ma bisognerebbe rivedere tutto l’assetto del sistema sanitario.

Comunque è vero che questi temi vanno affrontati non solo sul piano del rapporto medico-paziente, ma più ampiamente sul piano sociale e culturale.

Sarebbe necessario che la cultura del benessere venisse intesa non solo come limitata alle prestazioni fisiche tipiche della gioventù, ma venisse estesa a tutto l’arco della vita. E che, per quanto diffusa sia la tendenza alla competizione, si recuperasse il senso della collaborazione solidale.

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