Non dobbiamo fare l’errore di schierarci in favore o contro l’inquilino della Casa Bianca ma capire che il suo successo rappresenta una risposta al profondo smarrimento che le democrazie occidentali stanno attraversando. L’ordine neoliberale, che si era affermato negli USA degli anni Settanta e Ottanta per poi allargarsi al mondo intero, è entrato in crisi sotto i colpi di un populismo sempre più aggressivo che sta oggettivamente favorendo i disegni strategici di autocrazie come Cina e Russia. Un autorevole studioso americano analizza in modo approfondito cento anni di storia degli USA alla ricerca delle radici ideologiche, sociali, elettorali, organizzative e culturali di un sistema di idee e valori che è riuscito a trasformarsi in un ordine politico che ha egemonizzato sia la destra che la sinistra. Quell’ordine sta ora cedendo sotto le picconate di Trump, senza che si intravveda cosa lo sostituirà.
Le categorie di Partito repubblicano e Partito democratico, come pure quelle di destra e sinistra, non ci aiutano minimamente a leggere la complessa situazione attuale perché le idee che hanno caratterizzato l’ordine del New Deal di Roosevelt, sostituito poi dall’ideologia neoliberale, erano profondamente radicate in entrambi gli schieramenti. Gary Gerstle è un autorevole storico statunitense che, oltre ad insegnare in importanti università americane e britanniche, svolge un’intensa attività pubblicistica su riviste e Tv. L’autore spiega che l’ordine del New Deal aveva persuaso una cospicua maggioranza di americani che un forte Stato centralizzato potesse gestire nel pubblico interesse un’economia capitalistica dinamica ma pericolosa.
La politica centralizzatrice di Roosevelt
Per affrontare la Grande depressione del 1929, il governo federale impose nuovi ed estesi controlli sul sistema finanziario del paese. Nel 1933 il Congresso approvò il Glass-Steagall Act, che separava le attività bancarie commerciali da quelle di investimento e istituiva la Federal Deposit Insurance Corporation per assicurare ai depositanti che il governo federale ne avrebbe garantito i risparmi. Il Securities Act del 1933 e il Securities Exchange Act del 1934 misero un freno all’acquisto di azioni con margine (per esempio, prendendo in prestito denaro da rimborsare con i proventi degli aumenti previsti del valore azionario) e istituirono la Securities and Exchange Commission per far rispettare il nuovo tipo di regolamentazione finanziaria che il New Deal stava imponendo. Queste leggi diedero al mercato azionario una stabilità senza precedenti.
Inoltre, la Casa Bianca intervenne direttamente per frenare il potere degli imprenditori, favorire la sindacalizzazione della forza lavoro e garantire diritti adeguati agli operai. Tra i datori di lavoro la resistenza a questo nuovo sistema fu feroce, finché una drastica serie di scioperi tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937 li costrinse a piegarsi al New Deal e ai suoi sostenitori, così come accadde alla Corte suprema. «In questi scioperi -scrive Gerstle- i lavoratori del settore automobilistico occuparono le fabbriche della General Motors, allora una delle più potenti società del mondo. Vi rimasero per settimane, impedendo di mandare avanti la produzione e di generare guadagni e profitti. Né lo stato del Michigan, né il governo federale fecero ciò che in precedenza le amministrazioni statunitensi avevano deciso spesso in situazioni simili: mandare la Guardia nazionale o le truppe federali a interrompere lo sciopero. La General Motors capitolò nel marzo 1937, così come la Corte suprema, la quale votò a maggioranza minima (cinque contro quattro) in favore della costituzionalità dell’atto congressuale che aveva dato vita al nuovo sistema di relazioni industriali. In quel momento (marzo 1937), il “laissez faire” perse tutto ciò che restava della sua presa morale e giurisprudenziale sulla politica americana».
Come noto, il New Deal riuscì a combattere efficacemente la depressione economica che, però, fu superata completamente soltanto durante la Seconda guerra mondiale. Questa politica fu continuata da Henry Truman, il democratico che successe a Roosevelt, ma anche dal repubblicano Einsenhower, entrato alla Casa Bianca nel gennaio del 1953. Ma perché il Partito repubblicano accettò una politica che era in forte contrasto con le convinzioni di molti dei suoi sostenitori? Gerstle afferma che «il motivo ebbe molto meno a che fare con l’uomo Eisenhower che con la situazione geopolitica in cui erano stati spinti il nuovo presidente e il suo partito. Era iniziata la Guerra fredda. L’Unione Sovietica doveva essere fermata. In parte l’obiettivo andava conseguito con mezzi militari. Ma in parte anche tramite la politica interna. Il leader del “mondo libero” doveva dimostrare di potersi prendere cura dei suoi concittadini meglio di quanto facessero i leader del comunismo sovietico con i propri». Eisenhower e, successivamente, Nixon avevano ormai capito che le politiche del New Deal, in particolare il keynesismo, erano necessarie per sostenere la domanda aggregata e il flusso di merci nelle tanto celebrate utopie suburbane in cui ora risiedevano tanti americani.
La marcia del neoliberalismo
Ma la superiorità industriale indiscussa di cui avevano goduto gli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale cominciava a incrinarsi perché erano ormai emerse altre economie che crescevano in modo molto dinamico, come quelle del Giappone e della Germania occidentale. Nel 1976 gli Stati Uniti importarono, per la prima volta dal 1945, più di quanto esportassero. Nel frattempo, le grandi imprese americane, frustrate dalla loro incapacità di infrangere i regimi protezionistici in altri paesi, iniziarono ad aggirare le barriere alle tariffe estere costruendo più strutture produttive in altri Paesi. Negli anni Settanta ormai si vedevano sempre più come entità multinazionali anziché nazionali: le loro opportunità e gli investimenti su cui puntavano erano influenzati tanto dai mercati internazionali quanto da quelli interni. La loro lealtà nei confronti del Paese e del popolo americano prese a diminuire. Mentre queste corporation prosperavano, il Paese in cui avevano sede iniziava a soffrire. Già nel 1971, una giuria di esperti nominata da Nixon comunicava che «la superiorità economica del paese era svanita».
La quota americana della produzione mondiale di veicoli a motore era scesa dall’80 per cento nel 1950 a meno del 30 per cento. L’era dell’inattaccabile dominio globale degli Stati Uniti e della loro maggiore industria era finita. Piuttosto che investire in nuove strutture negli Stati Uniti, il manifatturiero americano seguì l’esempio dell’industria automobilistica costruendo nuove fabbriche all’estero, sia per aggirare le alte barriere tariffarie in Europa, sia per sfruttare il basso costo del lavoro nelle economie in via di sviluppo in Messico e nell’Asia orientale. Durante la recessione di metà anni Settanta, il flusso di investimenti esteri, in gran parte americani, in Corea del Sud, Taiwan, Messico e Brasile permise a quei Paesi di aumentare la loro produzione industriale dell’otto per cento. Simili scenari avrebbero continuato a manifestarsi con più intensità nel quindicennio successivo.
Iniziò una massiccia campagna per la diffusione delle teorie di economisti come Friedrich Hayek e Ludwig von Mises, vennero fondati centri studio, associazioni, sponsorizzati eventi che popolarizzavano le virtù del libero mercato e la necessità di recidere i legami che impedivano agli animal spirits degli imprenditori e dei banchieri di dispiegare tutta la loro potenza. Già il democratico Carter, che vincerà le elezioni nel 1976, aveva ammesso durante la sua campagna elettorale che la regolazione pubblica poteva essere necessaria durante la Grande depressione, ma ora negli Stati Uniti ce n’era troppa, e stava danneggiando sia il mondo degli affari sia i consumatori. Le tesi dei neoliberali non si focalizzavano soltanto sull’aspetto economico ma introducevano anche un discorso sulle libertà individuali, coartate, secondo loro, da troppe regolamentazioni. I neoliberali erano nettamente convinti che l’intervento pubblico nell’economia si fosse spinto troppo oltre, ed erano decisi a liberare l’industria e il capitale dalla morsa di legislazioni nazionali a loro avviso divenute eccessivamente indulgenti di fronte alle rivendicazioni dei lavoratori sindacalizzati e dei poveri.
Collegamenti destra-sinistra
Gerstle analizza anche gli interessanti punti di intersezione tra il movimento neoliberale e la New Left americana, influenzati entrambi dalle idee della scrittrice di origine russa Ayn Rand che denunciava il pericolo del collettivismo attraverso il controllo statale sull’economia e il Welfare State. Un secondo punto di intersezione era rappresentato da A Journal of Libertarian Thought, una rivista fondata da Murray Rothbard che, dalle originarie posizioni comuniste, aveva finito per abbracciare le tesi dell’economista von Mises. «Il terzo punto di intersezione – scrive Gerstle- fu più lento a concretizzarsi ma più incisivo dei primi due: cominciò a prendere forma nella Silicon Valley, dove nuove tipologie di venture capitalism entrarono in contatto con giovani informatici pieni di fede nel potere liberatorio e trasformativo del cyberspazio com’era tipico della New Left, e talvolta della New Age». Come si vede, il ruolo della Silicon Valley comincia ad emergere molto presto, come pure la fallacia di coloro che attribuivano ideologie “di sinistra” ai giovani imprenditori che si facevano velocemente spazio nel settore delle nuove tecnologie.
Negli anni Sessanta la rivoluzione dei personal computer era ancora in gestazione; avrebbe iniziato a irrompere massicciamente nella società americana non prima del decennio successivo e al principio degli anni Ottanta. Ma molti dei suoi principali artefici si consideravano dei ribelli ispirati dalla rivolta politica e culturale degli anni Sessanta. Compresero inoltre che il loro successo non dipendeva solo dalla capacità di liberare coscienza e mentalità dalla prassi operativa della Ibm, ma anche di raccogliere grandi quantità di denaro grazie al capitale di rischio di facoltosi finanziatori. Le unioni fra hacker e capitalisti che ne seguirono mescolarono le versioni di sinistra e di destra dell’ideologia neoliberale in maniera particolarmente potente. Conferirono alla Silicon Valley il suo carattere, esibendolo a dimostrazione di come la promessa originale del liberalismo classico di rendere gli esseri umani liberi di trasformare il mondo potesse concretizzarsi. La storia della Silicon Valley offre uno scorcio su molte delle caratteristiche, previste o impreviste, del futuro ordine neoliberale.

La svolta verso il dominio assoluto del neoliberalismo si ebbe con l’amministrazione del repubblicano Reagan ma, soprattutto, con quella del democratico Bill Clinton che rimosse ogni vincolo alle attività finanziarie e a quelle della New Economy. Non tutti, però, avevano la cultura e la mentalità per partecipare al grande banchetto promesso dall’arrembante ideologia neoliberale. Le minoranze, principalmente i neri, si ritrovarono tagliati fuori dai mirabolanti progressi della finanza e si videro costretti a sopravvivere tramite le piccole attività illegali. I tassi di criminalità aumentarono vertiginosamente; molte aree urbane divennero pericolose, alcune in maniera disperata. Non potendo prendere in considerazione un grande programma di lavori pubblici (che sarebbe stato visto dai reaganiani come un’inaccettabile intrusione di tipo keynesiano nel mercato) e dato che il welfare per i poveri veniva respinto dal Partito repubblicano in quanto politica fallimentare, l’amministrazione Reagan adottò la strategia del sorvegliare e punire: espandere le forze di polizia, aumentare il volume degli arresti e incarcerare a lungo i condannati. Le carceri si riempirono a dismisura tanto che gli Stati Uniti divennero il Paese ad avere il più alto numero di detenuti rispetto alla popolazione.
La guerra in Iraq del 2003 e il tragico fallimento nella ricostruzione del Paese mediorientale, dal cui collasso nacquero movimenti terroristici che hanno colpito anche l’Europa, mostrarono le crepe che cominciavano ad aprirsi nell’impianto teorico di coloro che avevano promesso un futuro di prosperità a tutti. L’orgia speculativa e l’illusione che i mercati fossero in grado di autoregolarsi, unitamente all’idea balzana che le nuove tecnologie avrebbero potuto prevenire ogni tipo di crisi, terminarono in modo repentino con la drammatica crisi del 2008. Le grandi imprese avevano delocalizzato i loro impianti in Paesi con un costo del lavoro molto più basso di quello degli USA e questo aveva portato alla chiusura di migliaia di stabilimenti e alla perdita del lavoro per milioni di operai che non potevano ricollocarsi all’interno della New Economy. Le disparità sociali e le differenze di reddito crebbero enormemente. Non può sorprende che, in queste circostanze, la disuguaglianza economica fosse aumentata drasticamente ai livelli precedenti al New Deal. Tra il 1980 e il 2005, l’un per cento più ricco dei percettori di reddito aveva ricevuto oltre l’ottanta per cento della crescita del reddito nazionale, raddoppiando la propria quota di ricchezza complessiva del Paese.
Vennero inoltre messe a disposizione cifre enormi per salvare le banche che rischiavano il fallimento e il presidente democratico Barak Obama ritenne che la strategia migliore perché l’America uscisse dalla crisi fosse un gruppo di esperti vicini a Wall Street che lavorasse a stretto contatto con le banche. La decisione di Obama di dare tanta preponderanza alle élite finanziarie e alle loro istituzioni nel suo piano di ripresa non fu ben vista dall’americano medio. Gerstle scrive che «mentre milioni di cittadini combattevano gli effetti della calamità economica che si era abbattuta sulle loro vite, i banchieri responsabili dell’emissione di mutui deleteri sembravano cavarsela con poco. L’amministrazione Obama non arrestò neanche un banchiere, né costrinse alcun istituto finanziario a pagare con lo smembramento i propri misfatti. Né l’americano medio era contento delle decine di miliardi di dollari di bonus che queste banche pagarono ai top manager nella primavera del 2009, proprio nel momento in cui l’economia stava toccando il fondo, con quasi il dieci per cento di disoccupazione e milioni di famiglie che cominciavano a subire procedure di pignoramento».
Era maturato il terreno fertile che avrebbe visto l’alleanza de facto tra i gli operai messi sul lastrico dalla globalizzazione e la classe media che si ritrovava impoverita e incapace di superare gli effetti della depressione del 2008. Quella rabbia profonda avrebbe portato un imprenditore fallito, ma intrattenitore e manipolatore geniale, a conquistare la Casa Bianca. Il resto è storia di oggi.
Gary Gerstle
Ascesa e declino
dell’ordine neoliberale
L’America e il mondo
nell’era del libero mercato
Neri Pozza, pp. 400, euro 24
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