La memoria e la vita. Cantando i canti del campo di Ferramonti

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«Abbiamo scelto alcune musiche composte da internati nel campo, e altre che gli internati solevano eseguire. Per rendere l’atmosfera che si viveva: era un campo di prigionia molto particolare» riferisce Sofia Weck, responsabile dei testi per lo spettacolo “Ferramonti, serate colorate” rappresentato a Milano in diverse sale (Teatro Menotti il 5 febbraio, Casa di riposo di via Saccardo l’8 febbraio, Centro Internazionale di Quartiere in via Fabio Massimo il 18 febbraio, Teatro della Contraddizione il 27 febbraio, Mercato Comunale Crespi, viale Monza 54 il 28 febbraio 2024).

Lo storico Jonathan Steinberg l’ha definito “il più grande kibbuz del continente europeo”: il campo di Ferramonti di Tarsia, in provincia di Cosenza, fu costituito nell’estate del 1940 per rinchiuderrvi ebrei, apolidi, slavi e altri considerati nemici. È ritenuto il più grande campo di concentramento in territorio italiano e quando fu liberato nel settembre 1943 vi erano reclusi 1604 ebrei e altri 412 prigionieri. Ma lo spettacolo che lo rievoca ha un che di giocoso e allegro: “colorato”, come dice il titolo, ricco di quella pacata ironia che contraddistingue tanta cultura ebraica, adusa a sopravvivere e conservarsi fedele pur nelle avversità. Consiste in un’alternarsi tra recitazione di lettere attribuite agli internati (in realtà scritte da Sofia Weck, ma sulla base di documenti che hanno consentito all’autrice di rappresentarne con puntualità il pensiero) e l’esecuzione di alcuni pezzi musicali: tre di Kurt Sonnenfeld che giunse al campo ventenne e lì continuò i suoi studi musicali, e altri di Leon Levitch, Johannes Brahms, Geni Sadero, Donizzetti e Tchaikovsky.

«I brani musicali sono stati scelti per rendere l’idea della varietà di culture e diversità di provenienza delle persone» spiega Weck che, per intrecciare la trama dello spettacolo, insieme con la pianista Laura Vergallo Levi e Francesco Vittorio Grigolo, il direttore musicale del progetto, ha studiato le testimonianze custodite nel Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cedec) presso il Memoriale della Shoah a Milano.

Proposte in successione cronologica, le lettere insieme coi brani musicali rendono l’atmosfera che regnava: con vivacità che suona straniante, abituati come siamo ad associare quei luoghi ai muti patimenti e alla straziante persecuzione. «C’era privazione della libertà, penuria e sofferenza – spiega Weck – ma il direttore di quel campo, Paolo Salvatore, si dimostrò persona sensibile e desiderosa di aiutare i reclusi. Per esempio, mandava i suoi figli a studiare insieme coi ragazzi internati, e a volte accompagnava i bambini fuori dal campo, a prendere un gelato…».

Ferramonti. Incontro degli internati col rabbino Riccardo Pacifici, nell’aprile 1942. Foto di ignoto, via Wikipedia

Ed ecco dunque alcune citazioni delle lettere che nella finzione narrativa di Sofia Weck rappresentano accuratamente il pensiero di diversi personaggi presenti nel campo.

Una lettera datata luglio del ‘41 descrive la costruzione delle baracche nella landa desolata, in zona malarica da poco bonificata. Non c’era ancora l’energia elettrica e l’acqua doveva essere portata da una fonte distante alcuni chilometri, eppure, vi si legge, “già alcuni internati hanno messo in piedi un concerto, con un coro e i pochi strumenti che ci sono”. Le cose poi miglioreranno.

Nel marzo dell’anno successivo un giovane proveniente da Bratislava racconta in una missiva inviata al padre: “Si sentono parlare tutte le lingue, soprattutto tedesco e yiddish, ma anche polacco, serbo, croato, greco e cinese. Da quel che ho potuto comprendere, molti qui hanno cercato di riorganizzarsi svolgendo la loro professione: ci sono boscaioli, studenti, medici, ingegneri e farmacisti, economisti e professori, pittori e scultori, cantanti e musicisti, artigiani e agricoltori. Addirittura c’è un signore, Ernst, che è riuscito a ricostruire la sua attività di venditore di saponi: si fa spedire la merce da Milano, e va in giro con la sua valigetta di baracca in baracca! A quanto pare il direttore del campo gli ha dato il permesso…”.

E nel dicembre ‘42 una bambina scrive a una sua amica emigrata negli USA: “Qui, in un campo del Sud Italia, ho la fortuna di poter frequentare la scuola dove ci regalano anche i quaderni e le matite… Abbiamo anche gli insegnamenti religiosi, col rabbino Deutsch e il rabbino Adler, ma non siamo obbligati ad assistervi sempre. Il mio preferito è il medico della scuola, il dottor Benjamin Eckerling, è giovane e simpatico e ci dà sempre qualcosa che dice che farà bene alla nostra salute…”.

Un altro nel novembre del ‘43 racconta come il direttore del campo avesse fatto disperdere i prigionieri nella vicina campagna per evitare che cadessero in mano alle truppe tedesche in ritirata.

Nell’ultima lettera si cita il direttore, Paolo Salvatore che poco prima dell’arrivo degli Alleati convocò i detenuti per dir loro: Questa guerra non è uguale alle precedenti, ma è una lotta ad oltranza. Chi lo sa? Tra un anno forse i nostri ruoli saranno invertiti. Io sarò internato e voi sarete i miei custodi”. Commenta Sofia Weck: “Vorrei ricordare questa figura, oltre che per tutto quello che ha fatto, soprattutto per queste parole, perché ci ricordano che dobbiamo sempre e tutti quanti lottare contro la volgarità di credersi al sicuro. Essere di qua o di là, molto spesso è un discrimine arbitrario: per questo è obbligatorio questionarlo e scardinare i suoi automatismi, solo apparentemente razionali, attraversando continuamente e instancabilmente le barriere”.

Lo spettacolo si conclude col Ferramonti walzer di Kurt Sonnenfeld: vi aleggia un sospiro di speranza, uno struggente senso di appartenenza, quasi una nostalgia. Sonnenfeld non lasciò Ferramonti dopo la liberazione, vi restò sino alla conclusione del conflitto. Quando apprese della morte dei suoi genitori, avvenuta nel giugno del 1942 in un Lager in Bielorussia, compose un Kaddish: un canto funebre. Nel 1945 si trasferì a Milano e vi restò per il resto della sua vita. Avrebbe voluto completare gli studi nel Conservatorio ma non vi fu ammesso. In compenso oggi esso conserva il suo archivio: ponderoso, poiché continuò sempre a comporre. Qualcosa di simile a quanto accaduto a Giuseppe Verdi: anche lui non fu ammesso nel Conservatorio che poi si sarebbe fregiato del suo nome. Sono inghippi, assurdità, contrasti come questi ad alimentare l’ironia di chi riesce a vedere oltre l’orizzonte limitato dell’attimo fuggente, oltre la brutalità delle dittature, oltra l’evanescenza delle mode.

Ferramonti. Serate Colorate”.

Soggetto di Laura Vergallo Levi, testi a cura di Sofia Weck

Programma:

Leon Levitch, Barcarola; Johannes Brahms, Die Schwestern (op. 61 n1); Kurt Sonnenfeld, Sonata per violoncello e pianoforte; Geni Sadero, Amuri Amuri; Gaetano Donizzetti, da “Lucrezia Borgia”, Com’è bello; Piotr Ilic Tchaikovsky, da “La dama di picche, duetto Liza e Paolina; Kurt Sonnenfeld, Kaddish; Kurt Sonnenfeld, Ferramonti walzer.

Claudio Giacometti, violoncello; Francesco Vittorio Grigolo, fisarmonica e concertazione; Alla Samokhotova, soprano; Olga Semenova, contralto; Laura Vergallo Levi, pianoforte; Sofia Weck, tromba, canto e letture.

Un momento dello spetacolo al Teatro Menotti di Milano.
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