Caravaggio: le opinioni e i valori. Tra il venale, il banale e il reale

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Esemplare il caso di un Caravaggio in Spagna. L’8 di aprile del 2021 un quadro attribuito al circolo di José de Ribera, pittore spagnolo che seguiva i modi del Caravaggio, doveva essere messo all’asta con un prezzo base di 1.500,00 euro. Il titolo attribuitogli era “La Coronazione di spine”. Se l’operazione fosse continuata avrebbe potuto essere venduto per qualche centinaia o migliaia di euro in più. Accadde che la fotografia dell’opera fu messa in rete dalla galleria che curava l’asta. E, riferiscono i giornali dell’epoca, altri galleristi e commercianti d’arte, avvezzi a esplorare il web alla ricerca di succulente opportunità, drizzarono le antenne. La notizia si diffuse. Si agitò il sospetto che fosse ben altro l’autore, e quindi ben altro il valore. Per esempio, il quotidiano spagnolo La Razón ( 26 aprile 2021) parla di un gallerista milanese cui il corrispondente madrileno disse che si trattava in realtà di un Mattia Preti, e stando così le cose il suo valore poteva aggirarsi attorno al milione di euro. La prevista asta fu bloccata per intervento del Ministero della Cultura spagnolo.

Il prosieguo è stata una serie di studi realizzati a tamburo battente. Emerse che poteva essere un Caravaggio. Nel maggio 2021 una commissione di esperti del Museo del Prado, della Real Accademia de Bellas Artes de San Fernando e della Direzione generale del Patrimonio della Comunidad di Madrid stabilirono che era effettivamente un Caravaggio e dichiararano l’opera Bene di Interesse Culturale. Per conseguenza la famiglia proprietaria, Pérez de Castro Méndez, incaricò un’altra galleria, la Colnaghi, di restaurarla per poi occuparsi anche della vendita.

Alla fine, la notizia è della fine di aprile 2024, l’opera, chiamata “Ecce Homo” [la si ritrova facilmente in rete, ma non siamo in grado di reperirne una riproduzione libera da copyright da mostrare qui], è stata acquisita da un filantropo il cui nome resta ignoto, per una cifra che secondo quanto si dice sui giornali rimane segreta ma dovrebbe aggirarsi attorno a meno della metà di quel che potrebbe valere sul mercato (quindi ipoteticamente attorno ai 30/40 di milioni di euro, visto che si ritiene che il prezzo potrebbe essere di oltre 100 milioni di euro). Tale filantropo desidera che l’opera rimanga esposta al pubblico, per cui dal 28 maggio 2024 è visibile al Prado.

Essendo un bene vincolato, lo Stato spagnolo avrebbe potuto esercitare il diritto di prelazione e riscatto, ma si è astenuto. È uno dei sei Caravaggio esistenti in Spagna. Anche se resta in mani private, di fatto è godibile dal pubblico.

Questo in sunto quanto circolato su diversi organi di stampa tra aprile e maggio 2024.

Colpisce il profano il mistero da cui tutta l’operazione è ammantata, sin da quando la notizia giunse sui mass media nel 2021. Lo Stato non la rileva, resta in mani private ma è esibita nel Prado. Un privato spende svariate decine di milioni di euro, e neppure vuole che il suo nome sia conosciuto mentre praticamente la dona al più importante museo spagnolo.

La cifra spesa per questo strano acquisto risulta molto inferiore a quella che la famiglia proprietaria avrebbe ricavato da un’asta pubblica. E tale famiglia in un primo momento sarebbe stata disponibile a vendere l’opera per una cifra infima, di quattro ordini di grandezza inferiore alla cifra ricavata.

Colpisce questa oscillazione di valore: una prima galleria tirata in ballo anni fa propone una base d’asta di 1500 euro: né può ritenersi una valutazione compiuta da un profano, poiché si tratta sempre di una galleria d’arte. Non appena sorge il sospetto che si tratta di un’opera caravaggesca, si mette in moto il marchingegno delle valutazioni di esperti e segue a ruota l’esplosione delle valutazioni di mercato. Si passa da un valore base di 1500 a una valutazione ipotetica che potrebbe essere di 100 mila volte superiore. Ma l’opera è sempre quella.

Le domande sono sempre le stesse: che cosa paga il mercato? Il senso che l’opera trasmette? Il suo contenuto intrinseco? Il nome del facitore?

Se un abile pittore copiasse pari pari la stessa opera probabilmente questa non varrebbe quasi nulla: ma l’essenza sarebbe la stessa, identica la figura, medesimi i giochi di luce, uguale l’ambientazione. Ai fini di quel che l’opera comunica, che cosa cambierebbe?

Solo la presunta certezza dell’autore, che peraltro è data solo dalla valutazione degli esperti accreditati. E dunque gli esperti cui si attribuisce la capacità di stabilire la paternità dell’opera contano più dell’opera stessa? Agli occhi del mercato è evidente che è così. Per il mercato non conta l’opera, quanto quel che di essa dicono coloro che sono dotati del potere di farla valere.

Nel caso del Caravaggio in questione, ci sarà per giorni e mesi la coda per andarlo a vedere al Prado. Si intrecceranno dispute su come interpretarlo, vi si rifletteranno stupiti pensieri, evocazioni, elucubrazioni che sondano la profondità del gesto artistico, si intrecceranno astrusi discorsi. Ammirati sospiri.

In ogni caso vi sarebbe stata attenzione: un Caravaggio fa sempre notizia. Ma partendo dal rischio di una sua vendita al prezzo di una bicicletta la notizia è vieppiù succulenta, lo stupore ingigantito, il valore esaltato.

Che cosa si muove attorno al balletto di valori che accompagna le attribuzioni delle opere d’arte? Autentica passione di ammiratori e collezionisti? Investimenti oculati? Riciclaggio di denaro sporco? Frodi fiscali?

Come sarebbe bella l’arte se non valesse niente. Se potessimo osservarla con distacco, liberi dalle ubbie e fantasie solleticate dalle girandole di denari.

Se non valesse niente, una qualsiasi opera potrebbe acquisire un valore vero e puro: potrebbe parlare solo al cuore e alla mente dell’osservatore. Come fanno i primi disegni che scarabocchiano i bambini prima di imparare a scrivere, su fogli che poi magari spiegazzano imbronciati. Sono segni che dicono molto ai genitori, ai nonni, ai fratelli: le tracce di vite nuove che cominciano a prendere forma. Bellezze potenziali, in divenire. Qualcosa che manca totalmente alle altre opere: per grandi che siano, per profonde nei messaggi che evocano negli animi, restano sempre offuscate dal quel velo di mestizia che vi getta addosso il valore venale.

L’altro valore, quello reale, potrà essere apprezzato solo nella gratuità fortunatamente concessa dalle riproduzioni fotografiche. Che in fondo si possono godere molto meglio meditando su di esse in casa: meglio di quanto si possa fare passando di fretta sospinti dalla folla in un corridoio di un museo dal quale nel volgere di poche ore si è cacciati perché giunge implacabile l’ora di chiusura. Una folla nella quale certo si troveranno alcuni, forse molti che autenticamente desiderano trovarcisi di fronte e sorbirla con lo sguardo per carpirne l’essenza, il messaggio sublime che magari neppure il suo artefice apprezzava quando, rapito nell’estasi creativa, la componeva. Ma si può dire con certezza che saranno tantissimi coloro che passeranno solo per il gusto di transitarvi.

Quale godimento si prova nei 15 minuti concessi a chi va a vedere l’Ultima Cena leonardesca in quella cassaforte cui si entra in piccoli gruppi previa sanificazione in camere asettiche deumidificate? Per non dire della madre di tutte le opere la cui straordinaria pubblicità l’ha totalmente affossata nell’abisso dell’inavvicinabilità conseguente alla massificazione: la Gioconda del Louvre, da tempo uccisa dalla fama.

Eppure è come se le opere d’arte inseguissero tutte quella fama sull’onda dell’emozione popolar massmediale: e non appena vi si avvicinano, eccole risucchiate nell’abisso della dannazione da pubblica frenesia.

Ben vengano le riproduzioni accurate e precise che si possono tenere in casa e osservare senza fretta e senza assilli, senza rischi di furto, senza il peso di ciclopiche ipervalutazioni che fluttuano nel nero universo della finanza globale.

Paradossalmente, oggi la riproduzione rende l’essenza dell’opera, che la sua materialità trova sconvolta dalla caterva di pubblicità, opinioni, valutazioni, dalla gravità del peso economico che finisce per sovrastarla e soffocarla e strapparla all’autenticità del pensiero creativo, per farne un mero oggetto di un consumo macchiato dallo squallore dell’avidità.

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