La Cina consolida la propria posizione in Asia centrale (a scapito di Putin?)

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Il 18 e 19 maggio 2023 si è tenuto nell’antica capitale imperiale di Xi’an il primo incontro al vertice tra i presidenti di cinque Paesi dell’Asia centrale e il leader cinese Xi Jinping per discutere della costruzione di un progetto comune per il futuro. Il primo giorno dei lavori è coinciso con la riunione del G7 a Hiroshima ma, a differenza del summit in Giappone, quello cinese sembra destinato ad avere un impatto reale nei rapporti di forza globali. La Russia è stata esclusa da entrambi gli incontri, il che sottolinea ulteriormente la sua emarginazione.

Poiché Pechino sta lavorando su una strategia a lunghissimo termine, non sono casuali né la data, volutamente destinata a offuscare l’incontro del G7, né il luogo, il terminale orientale da cui si snodava l’antica “Via della seta”. Durante la fastosa cerimonia di benvenuto che ha accolto i presidenti di Kazakistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Kirghizistan, Xi Jinping ha evidenziato che il rafforzamento dei legami con le cinque ex repubbliche sovietiche rappresentava una “scelta strategica” da parte di Pechino. Alla fine degli incontri è stato emesso un comunicato congiunto in cui vengono enunciati 15 punti che dovranno essere alla base di legami “forti e crescenti”. Tra le altre cose, il primo punto afferma: “Posti di fronte a enormi cambiamenti mai visti in un secolo, e avendo sempre in mente il futuro dei popoli della regione, i sei Paesi sono intenzionati a unire i propri sforzi per costruire una più stretta comunità Cina-Asia centrale con un futuro in comune”.

Riprende la marcia cinese verso ovest

Xi’an, la città scelta per l’incontro al vertice, è un’antica capitale imperiale, famosa nel mondo non solo perché qui fu scoperto l’esercito di terracotta, ma perché era il terminale orientale dell’antica “Via della seta” che Xi Jinping sta cercando di far rinascere attraverso il progetto denominato Belt and Road Initiative (BRI) che, non casualmente, era stato annunciato proprio in Kazakistan nel settembre del 2013. La città, anticamente chiamata anche Chang’an, era notissima tanto da essere descritta da Marco Polo nel capitolo 112 del suo Milione: “Dopo otto giornate di viaggio si arriva a questa nobile e grande Chengianfu, città davvero ampia e bella, capitale del regno di Chengianfu che ha ora per signore un figlio del Gran Kan chiamato Mangalai: questi ha avuto dal padre la terra, ed è stato incoronato re. È città di molti mercanti e di artigiani, ricca di seta e di armi e di quanto serve agli eserciti: vi si trova in abbondanza e a buon prezzo tutto ciò che serve alla vita dell’uomo. La città è a ponente; gli abitanti sono idolatri, salvo qualche turco, cristiano nestoriano e qualche saraceno”.

Oltre all’aspetto simbolico, volto a rilanciare la BRI da un’antica capitale imperiale, non può sfuggire il fatto che, a parte il Turkmenistan, tutte le altre repubbliche fanno parte dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, fondata nel 1996 nella città cinese da cui prese il nome. Lo scopo di questa organizzazione intergovernativa è di contribuire alla crescita economica e alla sicurezza comune, insieme all’altro importante firmatario, la Russia di Vladimir Putin che, però, non era tra gli invitati di Xi’an, un chiaro segnale che Pechino persegue un suo disegno strategico che prescinde da Mosca. Il dragone mira ad approfondire i legami con la regione per contrastare l’influenza americana, ridurre le tensioni etniche che riesplodono ciclicamente nella regione cinese dello Xinjiang, che confina con l’Asia centrale, e riempire il vuoto politico lasciato da Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina.

Le cinque repubbliche centro-asiatiche non hanno mai approvato l’invasione dell’Ucraina, ma non hanno neppure aderito alle sanzioni contro Mosca e questo ha creato delle difficoltà nei rapporti economici con USA ed Europa. Il fatto che siano però tutte entrate nella BRI le spinge ulteriormente a intensificare i rapporti economici con Pechino. Qualche osservatore particolarmente attento ha notato che, nel discorso finale, il presidente cinese ha rievocato i percorsi dell’antica “Via della seta” che legavano saldamente la Cina e l’Asia centrale. Un suo riferimento a un poeta della dinastia Tang è però stato ironico, senza averne le intenzioni, perché fu proprio durante tale dinastia che l’espansione cinese verso Occidente fu fermata nella battaglia di Talas (nell’attuale Kazakistan). Sembrerebbe che, dopo molti secoli, l’avanzata del Celeste Impero verso ovest sia ripresa.

La foto ufficiale dell’incontro di Xi’an ritrae Xi Jinping come un primus inter pares tra i presidenti delle repubbliche centro-asiatiche. (Foto presa da Facebook)

L’indebolimento e l’isolamento di Mosca a causa dell’invasione in Ucraina non hanno fatto altro che accelerare una tendenza già presente nella regione visto che, da molti anni, è stata Pechino a seguire con grande interesse un’area che non attira certo frotte di investitori internazionali e dove una Russia in crisi crescente è sempre meno attiva. Evitando di fare considerazioni di rigore economico o rispetto dei diritti umani, la Cina ha finanziato, e continuerà a farlo, progetti in Asia centrale che nessun Paese o impresa privata prenderebbe in considerazione. La Cina ha stanziato 350 milioni di dollari e inviato operai per la costruzione di una centrale termica nella capitale tagika di Dushanbe. Per un impianto simile a Bishkek, capitale del Kirghizistan, la Cina ha concesso un prestito di 386 milioni di dollari. E ci sono molti altri progetti simili, trascurati dalle istituzioni internazionali, che Pechino ha intenzione di finanziare e realizzare, mettendo in pratica una strategia a tenaglia sia economica che politica.

Intensi scambi economici

La molla che ha portato all’invasione dell’Ucraina è il progetto di ricreare il Ruskiy mir, la sfera di influenza politico-culturale del mondo russo. Non si fa quindi troppa fatica a capire le preoccupazioni delle ex repubbliche sovietiche centro-asiatiche che cominciano a temere di essere inglobate anche loro nei disegni di ricostruzione dello spazio sovietico portati avanti dal Cremlino. C’è quindi un forte interesse che spinge le repubbliche centro-asiatiche a guardare a Pechino. Da molto tempo la Cina e i Paesi dell’Asia centrale hanno intensi rapporti economici che rivestono un’importanza strategica per il Regno di Mezzo poiché rappresentano uno snodo fondamentale verso l’Europa, un mercato molto più appetibile e interessante per il dragone. Gli scambi commerciali con le cinque repubbliche hanno raggiunto i 70 miliardi di dollari nel 2022 (31 nel solo Kazakistan) e nel primo trimestre del 2023 sono aumentati del 22 per cento. La Cina, seconda economia mondiale, è il principale partner commerciale della regione e ha investito miliardi di dollari nei giacimenti energetici dell’Asia centrale e nella realizzazione di grandi infrastrutture, come l’oleodotto di 2200 chilometri che si stende dal Kazakistan al Xinjiang.

L’invasione russa dell’Ucraina, con le relative sanzioni che hanno colpito Mosca, hanno portato a una situazione di fatto che ha favorito la Turchia, ma anche le repubbliche centro-asiatiche. La Cina sta infatti cercando di trovare soluzioni alternative alla perdita di uno dei sei corridoi della Belt and Road Initiative che in futuro dovrebbe anche coinvolgere il Kazakistan e gli altri Paesi dell’area. Il 7 e l’8 giugno 2022 il ministro degli Esteri cinese Wang Yi si è recato in visita nel Kazakistan dove ha incontrato il presidente Kassym-Jomart Tokayev e, il giorno successivo, tutti i ministri degli Esteri dei Paesi dell’Asia centrale, usando una formula che è stata definita dei “5+1”. Anche se le dichiarazioni ufficiali non riportavano indicazioni precise, si è capito subito che il motivo del viaggio era quello di sviluppare vie alternative al corridoio che attraversava la Russia e che è incappato nelle sanzioni occidentali.

La nuova situazione strategica ha quindi contribuito a rilanciare il Trans-Caspian Corridor, finora fortemente appesantito da problemi di natura logistica, da ritardi e costi aggiuntivi dovuti alla mancata omogeneizzazione delle norme che regolano il trasporto delle merci. Un elemento del rilancio è stata anche la volontà dei Paesi che sarebbero attraversati dal nuovo corridoio di sfruttare i vantaggi economici che ne deriverebbero. Secondo alcuni analisti, sia il Kazakistan che l’Azerbaijan hanno visto in questa proposta un’occasione di sviluppo per differenziare la propria economia. Per raggiungere la Turchia, e quindi il mercato europeo, la Cina ha a disposizione due vie: la prima settentrionale, passando per il Kazakistan che si è prontamente candidato, e una meridionale, che attraversa il Kirghizistan, l’Uzbekistan e il Turkmenistan. Si capisce quindi che l’accordo di Xi’an con le repubbliche centro-asiatiche ha implicazioni strategiche anche per l’Europa. Putin non sarà troppo entusiasta di questi sviluppi ma, sic stantibus rebus, non ha molte opzioni a disposizione per contrastarli.

E il Sud del mondo sta a guardare

Per un europeo, che si ritrova la guerra in casa, non è molto difficile capire e approvare la strategia implicita nelle sanzioni imposte a Mosca per fermare il conflitto il prima possibile. Ma un abitante dell’Africa sub-sahariana, costretto a fuggire dal suo villaggio per una guerra o l’avanzare del cambiamento climatico, ha una percezione completamente diversa. Lui guarda l’Europa e non vede la grande arte che riempie i musei e le sale da concerto, le splendide architetture costruite in secoli e secoli di sviluppo, una società tutto sommato ricca e pacifica. Guarda l’Europa e vede le capitali del colonialismo, lo sfruttamento che prosegue con una struttura finanziaria ingiusta, vede i Paesi ricchi che prelevano da quelli poveri più di quanto donino e investano. E non capisce per quale ragione dovrebbe schierarsi con le ex forze coloniali che hanno saccheggiato il suo continente. Allo stesso modo, perché un abitante dell’America Latina dovrebbe sostenere la politica degli Stati Uniti che, per decenni, hanno appoggiato feroci dittature militari in quello che consideravano il “giardino di casa”?

Il G7 (fino al 2014 c’era anche la Russia e si chiamava G8) è un forum che riunisce i Paesi più ricchi e importanti del mondo ma che, nonostante i richiami di principio alla democrazia e ai diritti umani, riflette un periodo storico in via di superamento. A parte la Cina, già oggi seconda potenza mondiale, da diversi anni sono emerse economie molto forti e dinamiche. L’India, che non fa parte di questo forum internazionale, ha un Prodotto interno lordo (Pil) molto maggiore di Francia, Italia e Canada, tutti e tre membri del G7. È quindi un segnale interessante che all’incontro al vertice di Hiroshima siano stati invitati come ospiti anche India, Brasile, Indonesia, Vietnam, Australia, Corea del Sud, Comore e le Isole Cook (queste ultime due rappresentavano, rispettivamente, anche l’Unione Africana e il Forum delle isole del Pacifico). D’altronde, i dati ci dicono che anche se rimane estremamente influente, il G7 è sceso dal rappresentare una percentuale dell’economia mondiale del 70 per cento, durante gli anni ’80 del secolo scorso, al 44 per cento di oggi.

Il premier giapponese Fumio Kishida, organizzatore del G7, ha fatto di tutto per allargare la discussione anche al Global South. (Foto https://www.kantei.go.jp/jp/rekidainaikaku/100.html)

Nonostante la volontà del premier giapponese Fumio Kishida di ascoltare sempre di più i Paesi del Sud del mondo, il cosiddetto Global South, come c’era da aspettarsi, è stata l’Ucraina a rappresentare il baricentro delle discussioni, anche per la presenza del presidente Volodymyr Zelensky, arrivato a Hiroshima a bordo di un aereo messo a disposizione dalla Francia. Purtroppo, l’amministrazione Biden si sta rivelando incapace di formulare una strategia globale che affronti in un contesto più ampio la questione ucraina e sia in grado di formulare proposte che vadano oltre la semplice ipotesi di vittoria militare sul campo. Non è fornendo armamenti più moderni e potenti che si potrà porre fine al dramma ucraino. Serve un coinvolgimento più ampio del Global South, ma questo implica anche di ridiscutere gli equilibri economici internazionali e la gestione della finanza mondiale, in cui gli Stati Uniti giocano un ruolo centrale. È questa la “Nuova frontiera” che la Casa Bianca dovrebbe prendere in considerazione, ma per questo serve un presidente che guardi alla storia e non ai risultati delle prossime elezioni.

In un’intervista concessa durante il summit a Nikkei Asia, il premier indiano Narendra Modi ha dichiarato che avrebbe usato l’incontro per “amplificare le voci e le preoccupazioni del Global South”. Intervistato dalla rete televisiva Al Jazeera, Ian Hall, vice direttore del Griffith Asia Institute in Australia, ha dichiarato che l’allargamento degli interessi del G7 riflette la “crisi più vasta del multilateralismo”. Ha poi aggiunto: “Viene ormai riconosciuto che le voci del Global South non sono sempre ascoltate come dovremmo invece fare se vogliamo trovare soluzioni a questioni come il cambiamento climatico”. Prima dell’incontro di Hiroshima l’organizzazione internazionale non profit Oxfam ha reso pubblico un rapporto secondo il quale i Paesi del G7 continuano a richiedere 232 milioni di dollari al giorno per il ripagamento dei debiti a Stati a reddito basso e medio. E questo avviene nonostante il fatto che i Paesi ricchi debbano ancora versare 13,3 miliardi di dollari in aiuti mai inviati e in fondi per la lotta al cambiamento climatico. Nel 1967 papa Paolo VI redasse una famosa enciclica intitolata Populorum Progressio, in cui formulava il principio secondo il quale l’unica garanzia per la pace era lo sviluppo economico e sociale. Chissà se il cattolico Biden l’ha mai letta.

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