La lunga marcia della Cina per conquistare un’influenza globale sui media

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Nonostante i travolgenti successi economici e il crescente ruolo di superpotenza con una intensa attività diplomatica, molti in Occidente guardano ancora al Paese del Dragone soltanto come un mercato molto appetibile, trascurando la storia degli ultimi trent’anni. Non ci troviamo più di fronte a un Paese in via di sviluppo ma a una superpotenza egemonica in Africa, profondamente influente in Europa e America latina e con un ruolo crescente in Medio Oriente. Un nuovo saggio analizza come i media hanno contribuito a creare una solida identità nazionale e una proiezione sempre più accentuata a livello globale.

Servendosi degli strumenti di sinologo e di esperto di media studies, Gianluigi Negro, docente di lingua e traduzione cinese presso l’Università di Siena, fornisce un quadro dettagliato di come il Partito comunista cinese (Pcc) sia riuscito, nel corso dei decenni, a usare tutti i mezzi di informazione ma anche le nuove tecnologie in un articolato processo di nation building, mostrando grande flessibilità e determinazione. L’abilissimo uso dei mezzi di comunicazione di massa a livello interno e, sempre di più, anche a livello internazionale, ci ricorda che in Cina l’esercizio del potere è stato sempre inteso, prima che come coercizione fisica, come un processo comunicativo. Il secondo aspetto che emerge da questo studio è la coerenza delle scelte politiche nella gestione dei media. Nonostante l’evidente accentramento avviato durante la leadership di Xi Jinping, segretario del Pcc e presidente, sia in termini contenutistici che a livello gestionale del sistema dei media, il saggio dimostra che l’assetto ideologico ha rappresentato da sempre una costante nel sistema mediale cinese.

A tappe forzate verso la modernità

Come è noto, la Repubblica popolare cinese (Rpc) nasce nel 1949 e nei primi anni l’influenza del modello sovietico nel giornalismo è profonda. Ma, in termini più generali, “è comunque possibile individuare tre caratteristiche costitutive del sistema dei quotidiani cinesi che contribuirono a sviluppare la nascita della Rpc quali: l’aspetto educativo, il ruolo di intelligence e la struttura geografica distributiva. Parte di questi princìpi, processi e impostazioni sono ancora presenti nella Cina contemporanea”. La stampa e la radio, lo strumento tipico della propaganda comunista, vennero usati capillarmente per creare un senso di identità nazionale e, per ovviare al diffusissimo analfabetismo, si fece ricorso alla lettura pubblica dei giornali. Il problema della scarsissima diffusione di apparecchi radio venne superato con la diffusione delle trasmissioni tramite altoparlanti che raggiungevano tutti.

A livello tecnologico, la Rpc iniziò a maturare la propria indipendenza dall’Unione sovietica a partire dal 1953, anno in cui Pechino decise di produrre autonomamente tutte le componenti tecnologiche delle strumentazioni radio. “Nel processo di integrazione nazionale, il ruolo della radio fu ancora più rilevante nelle aree rurali dove il tasso di alfabetizzazione era particolarmente basso: il ricorso a un medium orale permetteva infatti di portare avanti una comunicazione politica in maniera ancora più efficace. Oltre alla diffusione di circolari propagandistiche, l’utilizzo della radiofonia nelle aree rurali contribuì anche a un miglioramento tecnologico delle attività agricole. Fu proprio grazie alla radio che molti contadini familiarizzarono con pratiche relative alla sanificazione dei terreni e con l’utilizzo di insetticidi e fertilizzanti”.

Se radio e giornali hanno ricoperto un ruolo cruciale, soprattutto nei primi anni della Rpc, guidata con pugno di ferro da Mao, successivamente, sotto la direzione di Deng Xiaoping, l’uomo dell’apertura agli Stati Uniti, e Jiang Zemin, la televisione e il cinema crearono le premesse per un sistema più articolato e complesso, in cui i valori socialisti permanevano ma, allo stesso tempo, convivevano con dinamiche di mercato. L’autore cita il noto “Viaggio al Sud” che Deng Xiaoping intraprese nel 1992 con lo scopo di abbandonare l’ortodossia ideologica e adottare un approccio pragmatico a sostegno della crescita economica. In questo periodo si assiste alla nascita di numerosissimi nuovi media. “Di fronte a una crescita così sostenuta, il Pcc si è dimostrato comunque capace di mantenere un controllo centralizzato del sistema dei media grazie a un meccanismo di licenze che di fatto normavano, autorizzavano e, in taluni casi, restringevano le attività dei vari mezzi di comunicazione. Un secondo accorgimento funzionale alla gestione dell’intero sistema dei media è stata la creazione di conglomerati mediatici”.

Il controllo sulla rete

In questo contesto di grande trasformazione generale, i media hanno ricoperto un ruolo fondamentale per veicolare, anche in questo caso, un’idea di “nuova Cina” come mai prima legata a logiche di mercato e sempre più globalizzata. La vera svolta si ha nel 2013, quando Xi Jinping, allora segretario del Pcc, viene nominato anche presidente e inizia un lento ma inesorabile processo di centralizzazione del potere nelle proprie mani. “Sebbene si tratti di un processo già avviato in passato, la leadership di Xi Jinping ha rafforzato la spinta tecno-nazionalista. In linea con le precedenti esperienze dei media, anche lo sviluppo di Internet è chiamato a seguire (e allo stesso tempo a salvaguardare) le linee del Pcc. Allo stesso tempo, Internet in Cina ricopre uno status centrale nella modernizzazione dei processi produttivi, nell’alimentazione dei consumi domestici e, in ultima istanza, nel rafforzamento dell’ambizione nazionale di rendere la Rpc un Paese in grado di occupare una posizione dominante a livello globale”.

Il Partito comunista ha mostrato grande abilità e flessibilità nel mettere la rete cinese sotto controllo e mira a diventare un punto di riferimento e un esempio a questo riguardo. (Foto di Fabio Lanari Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International, 3.0 Unported, 2.5 Generic, 2.0 Generic and 1.0 Generic license).

Gli USA si erano illusi che la progressiva diffusione di internet avrebbe anche permesso lo sviluppo di una coscienza democratica ma in Cina le cose sono andata in direzione diametralmente opposta. Già nel 2008, la Cina aveva superato gli Stati Uniti come numero di utenti di internet e aveva puntato sempre di più sull’autonomia tecnologica in modo da avere il controllo totale sugli internauti cinesi. Nel 2012 Xi annuncia la necessità di raggiungere uno status di “grande cyberpotenza” e crea due anni dopo il Gruppo centrale per la cybersicurezza e l’informatizzazione, sempre sotto la sua direzione. Successivamente, il Pcc ribadisce con fermezza il ruolo dello Stato nella definizione, nella guida, nella supervisione e nella gestione delle attività online condotte da cittadini cinesi su Internet a livello nazionale. “Il Pcc dimostra sia a livello centrale che provinciale di essere in grado non solo di inibire ma anche di influenzare il dibattito su varie piattaforme, mettendo in luce la propria adattabilità e versatilità nella gestione dei media digitali”.

Il controllo sulla rete è esercitato tramite il cosiddetto “Great Firewall” che impedisce ai cittadini cinesi l’accesso a molti siti web e piattaforme, soprattutto occidentali, a meno che non si ricorra ai servizi di una rete privata virtuale (Vpn) che ha però l’inconveniente di non essere del tutto stabile. Ci sono inoltre forme di censura nelle stesse piattaforme e siti web cinesi con il ricorso a software specifici ed editor che hanno il compito di monitorare il discorso online. Un problema legato a questa attività è però quello di rappresentare un costoso onere per molte aziende che, oltre ai costi fissi per applicazioni e personale, sono state spesso costrette a fronteggiare pesanti multe per non aver adempiuto correttamente alle richieste dei vari governi locali e ministeri coinvolti nella gestione dei contenuti online in Cina.

Il soft power di Pechino

Nel 2014, durante il Bo’ao Forum, Xi Jinping ha presentato il suo programma per rendere la Rpc indipendente nel settore tecnologico; allargare i benefici che derivano dall’accesso all’informazione ad ampie fasce della popolazione mediante lo sviluppo delle industrie mediali; rafforzare anche a livello globale il settore tecnologico e mediale; contribuire al processo di “ringiovanimento della nazione”. Oltre a sottolineare il concetto di “sicurezza culturale”, già notata nell’industria cinematografica e in quella di Internet (e non limitata a soli aspetti tecnologici), in questa fase l’evoluzione dei media cinesi punta a ricoprire un ruolo primario anche a livello globale.

Non c’è dubbio che sotto la direzione di Xi, Pechino non nasconde più le sue aspirazioni a diventare un punto di riferimento non solo economico, come è implicito nel progetto definito Nuova via della seta, ma anche culturale grazie alla proiezione mondiale dei suoi mezzi di informazione e del suo cinema che intende sfidare Hollywood. Sebbene da molti anni i media cinesi siano incoraggiati ad aprire sedi all’estero, l’impatto globale dell’informazione cinese rimane molto marginale, anche perché non è mai stato risolto adeguatamente il conflitto tra le concezioni di decentralizzazione, che favorirebbe le nuove idee e la creatività, e la centralizzazione, che consente di esercitare un controllo capillare. Anche se alcuni film cinesi hanno riscosso un buon successo di pubblico a livello internazionale, l’industria cinematografica americana continua a giocare un ruolo preminente.

Per quanto riguarda la TV, nel 2018 è stato creato il China Media Group, un conglomerato che fonde vari gruppi preesistenti, che punta a migliorare le capacità nel settore della comunicazione internazionale e a rafforzare l’influenza della Cina a livello mediale su scala globale. “Va comunque notato che la Cina aveva avviato già da diversi anni una strategia di potenziamento della propria capacità di comunicazione internazionale, basti pensare che, ad esempio, al momento della stesura del presente studio, la China Central Television (Cctv) si avvale di una programmazione in cinque lingue oltre il cinese, mentre Radio Cina Internazionale è trasmessa in 56 lingue”. Non mancano però interrogativi in merito all’effettivo successo di questo grande sforzo che, “dopo l’insediamento di Xi Jinping, ha determinato una svolta politica verso il rafforzamento ideologico, la convergenza mediale ma anche le aspirazioni globali”.

La marcia verso una riconosciuta posizione di riferimento a livello internazionale non è però così lineare e ineluttabile. La prof.ssa Zhao Yuezhi, fondatrice del Global Media Monitoring Laboratory presso la Simon Fraser University in Canada, pur riconoscendo come la Rpc si sia “forgiata grazie a una rivoluzione sociale anti-imperialista e anti-capitalista e storicamente basata su una legittimità popolare”, nota come oggi sia caratterizzata da scontri interni che includono organi burocratici con agende differenti, forze sociali divergenti e diverse visioni in merito a come perseguire le modernità del Paese. Non da ultimo queste divergenze contribuiscono a minare alla base l’efficacia e l’unitarietà della strategia comunicativa verso l’esterno.

Gianluigi Negro
Le voci di Pechino
Come i media hanno costruito
l’identità cinese
Luiss University Press, p. 190, € 20

 

 

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