È del 9 agosto 2020 la notizia diramata dall’intelligence statunitense che vari Paesi cercano di interferire con il processo elettorale per il prossimo Presidente degli Stati Uniti. Dalla Russia cercano di mettere in cattiva luce il candidato democratico Joe Biden, dalla Cina e dall’Iran invece cercano di minare le possibilità di rielezione di Donald Trump.
Bastano pochi voti
Com’è noto, subito dopo che Trump fu eletto nella votazione del novembre 2016, si diffusero notizie riguardanti il modo in cui in quella campagna fossero intervenuti nel Web agenti russi per favorirlo. E che la cosa fosse nota già prima delle elezioni è testimoniato dal fatto che Hillary Clinton, allora la candidata del Partito democratico alla Presidenza, in uno dei dibattiti preelettorali aveva accusato Trump di essere un “fantoccio” (“puppet” disse) dei Russi.
E alla fine il tema dell’ingerenza russa fu oggetto di indagini laboriose e lunghe, il cui risultato conclusivo fu che questa effettivamente ci fu, ma non ebbe un influsso sul risultato elettorale.
Che cosa questo voglia dire, in un contesto in cui Trump fu eletto pur avendo ottenuto un numero di voti totali inferiori a quelli ottenuti dalla Clinton, solo grazie al fatto che il “peso” dei voti agli effetti dell’elezione varia in funzione della loro ripartizione territoriale, non è stato analizzato.
E per considerare quanto possa influire anche una manciata di voti basta ricordare quanto avvenne nell’elezione presidenziale del 2000, quando George W. Bush, repubblicano, ottenne la vittoria sull’allora vicepresidente uscente democatico, Al Gore, per una manciata di voti peraltro contestati nello Stato della Florida, allora governato da Jeb Bush, fratello di George. La differenza che diede la vittoria a Bush in quello Stato (e per conseguenza a livello federale) fu di 1784 voti, cioè meno dello 0,5 percento dei votanti (che peraltro negli USA sempre oscillano attorno alla metà degli aventi diritto, quindi un numero più che esiguo): a causa di questo fatto, sarebbe stato necessario eseguire un accurato riconteggio dei voti. Ma il riconteggio non avvenne, perché avrebbe richiesto troppo tempo: la Corte Suprema, a maggioranza repubblicana così sentenziò. E questo, per quanto vi fossero dubbi che vi fossero stati brogli elettorali.
Al Gore accettò la sconfitta e Bush fu eletto. E dopo qualche mese vi fu l’attacco alle Torri Gemelle di Al Qaida, e la decisione del Presidente Bush di dar luogo alla seconda guerra del Golfo e di attaccare l’Afghanistan, con tutto quello che seguì: il trionfo delle guerre locali con grande dispendio di apparati militari, in cui gli USA tante energie sempre hanno riversato dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Dunque, pur una piccola manciata di voti può essere decisiva in una campagna elettorale come quella statunitense. Basta che la valanga di fake news, voci incontrollate, insulti, confusione, arruffar di penne che avviene sui social tramite la congerie di strumentazioni che si attivano in Internet riesca a convincere anche un migliaio di votanti in più, a pendere da un lato piuttosto che dall’altro. Non è pertanto vero che l’attivismo online, qualunque sia la sua provenienza, non influisca.
Una politica globale
Il mondo è effettivamente diventato un’unica grande piazza virtuale. E quanto avviene su questa piazza globale influisce in tutti i processi di rilevanza politica o strategica, ovunque. Non è una novità di questi ultimi mesi. Un paio di esempi: già tempo addietro si seppe che l’intelligence anglo-statunitense spiava, e per conseguenza cercava di influire, su capi di Stato non solo nemici, ma anche amici (tra i quali Angela Merkel), vedi lo scandalo del 2013 sullo spionaggio operato dalla National Security Agency (NSA). Gli attacchi cibernetici di provenienza statunitense e/o israeliana agli impianti nucleari iraniani si succedono da anni.
Oggi la Russia propende per Trump perché persegue l’opzione “sovranismo”, ovvero nazionalismo, a livello internazionale. Perché, quanto più si disgregano gli organismi sovranazionali, tanto meglio può recuperare l’influsso che perse con la caduta del comunismo (si ricordi che all’epoca dell’Unione Sovietica il suo influsso geopolitico passava anche o forse soprattutto attraverso i Partiti Comunisti sparsi un po’ ovunque nel mondo).
Che poi gli organismi sovranazionali siano in gran parte sotto l’influsso della grande finanza speculativa, non fa che aiutare le tesi sovraniste in un mondo ancora e sempre percorso da crisi economiche e dalla crescente ingiustizia della smisurata differenza tra ricchi e poveri, o relativamente poveri. Ma si tenga presente che tali forze finanziarie, hanno identica se non superiore capacità di influire anche sulle istituzioni nazionali, e sempre vi hanno esercitato il loro influsso. Quindi passare dal livello dell’istituzione sovrannazionale a quello delle istituzioni nazionali abolendo le prime, nulla cambierebbe. (A mo’ d’esempio si ricordi lo scandalo della Banca Romana a fine ‘800, che coinvolse i governi Crispi e Giolitti; o la misura in cui le banche interagirono con tutta la politica coloniale britannica).
La Cina viceversa si oppone all’opzione Trump-sovranismo: lo ha fatto sin dalla partecipazione di Xi Jinping alla riunione di Davos tenuta dopo l’elezione di Trump alla Casa Bianca. Allora Xi difese il libero mercato sul piano internazionale, pur gestendo lui un regime comunista. Anche questo non è nulla di nuovo in realtà: sempre i Paesi tendono a essere “sovranisti” finché non dispongono di un apparato economico-industriale capace di competere sui merati internazionali. Ma quando ottengono questa capacità, divengono liberoscambisti, desiderosi di esercitare il loro potere attraverso l’influsso economico (cfr Paul Bairoch, 1995). E, come peraltro anche gli Stati Uniti furono per gran parte dell’800, oggi la Cina è dirigista e protezionista all’interno, ma liberoscambista all’esterno, divenuta com’è la “fabbrica del mondo”.
Il peso geopolitico e Renminbi vs Dollaro
Perché dunque Cina e Iran votano contro Trump? Lo scontro tra gli USA di Trump e la Cina di Xi non è questione di confronto tra teorie economiche, ma di potere geopolitico. Più la Cina allarga la propria area di influsso economico, più minaccia quella statunitense. E se a livello militare lo scontro avviene ora attorno al Mar cinese meriodionale, sotto sotto cova un altro scontro, più globale: la Cina sta poco a poco imponendo la propia moneta, Renminbi, in sostituzione del Dollaro. Questa à la maggiore minaccia mai portata all’impero americano, che si fonda sulla forza del Dollaro come valuta di scambio e di riserva nel mondo. Se il ruolo del Dollaro nel mondo venisse a cessare, l’economia statunitense si rivelerebbe per quella che è: una scatola svuotata dopo decenni di deindustrializzazione e di esternalizzazione della produzione. Di qui il grande impegno americano a sostenere con il suo enorme potere militare il peso del Dollaro nel mondo.
Che poi l’Iran ce l’abbia con Trump è l’ovvia conseguenza del fatto che con la precedente Presidenza statunitense l’Iran era divenuto Paese di riferimento per il mondo occidentale nell’area mediorientale, mentre Trump ha riportato in primo piano l’Arabia Saudita.
L’opzione Iran, sul piano geopolitico, vuol dire favorire la logica della preminenza della regione Eurasiatica (con tutto il peso della storia e della cultura a questa legata), e di riflesso dei rapporti commerciali che con la Belt & Road Initiative di Pechino si intensificano in tutta la Landmass.
L’opzione Saudita vuol dire invece privilegiare il peso del petrolio e dei regimi arabi di stampo feudale, ma anche mantenere la supremazia dei traffici marittimi, da secoli dominati dal potere angloamericano.
Una piazza globale
In tutto questo si nota come la campagna elettorale USA non sia un affare nazionale: con buona pace dei sovranisti. Anche se sono sovranisti, come lo è Putin, entrano nella campagna elettorale americana che così diviene affare dibattuto e combattuto a livello sovranazionale. Perché non v’è angolo del mondo che sia isolato, tutto è in relazione con tutto il resto. E tanto più lo è quella che ancora è la maggiore potenza militare, finanziaria e politica nel mondo. Proprio per questo è non solo plausibile, ma anche utile e necessario che vi siano interferenze esterne nella campagna elettorale americana. Del resto gli stessi USA almeno da dopo la Seconda guerra mondiale si sono sempre ingeriti negli affari interni di decine di altri Paesi, in via diretta o indiretta, con le armi o con i denari, con la diplomazia o con la forza di indicazioni e minacce pubbliche. E proprio gli USA sono stati il Paese che maggiormente ha favorito la crescita della Rete, attraverso i molteplici Social che oggi vi spopolano, e che sono in prevalenza centrati nella Silicon Valley.
Perché un italiano non deve poter dire la sua sull’elezione del Presidente di un Paese che da decenni ha un influsso a volte decisivo per l’Italia e di riflesso per la sua vita personale? E perché lo stesso non possono pensare in decine di altri Paesi? Gli USA hanno basi militari in una settantina di Paesi nel mondo e la politica economica statunitense ha effetti diretti o indiretti in tutto il mondo. Siamo di fronte alla logica conseguenza di quanto è avvenuto in particolare dal secondo dopoguerra.
Quindi non è uno scandalo che Russia, Cina e Iran cerchino di influire sugli USA. Piuttosto il mondo dovrebbe rendersi conto che è effettivamente “un solo mondo”: è un fatto. E, ancora, che sovranisti “alla Putin” oggi tanto tengano alla rielezione di Trump, non fa che dimostrarlo, proprio in forza di quanto mettono in campo allo scopo di garantirne la rielezione. La globalizzazione, politica, non solo finanziaria, è un dato di fatto.
Tale situazione piuttosto evidenzia la necessità che gli organismi sovrannazionali istituiti dopo la Seconda guerra mondiale siano rafforzati e portati a funzionare meglio. Non tolti di mezzo, come, secondo l’usuale pratica retrograda, la congerie sovranista-nazionalista desidererebbe fare — o, almeno a parole, sostiene di voler fare.

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