Il ritorno dello Zar: Putin è diventato il vero arbitro del Medio Oriente

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Nuovo accordo Sykes-Picot sotto il patrocinio della Russia   [caption id="attachment_8090" align="alignright" width="333"]Skyes_Picot,_The_Manchester_Guardian,_Monday,_November_26,_1917,_p5 Articolo del Manchester Guardian del 26 novembre 1917, con il contenuto dell’accordo segreto Sykes-Picot, diffuso dal commissario agli Affari Esteri Lev Trotsky, dopo la Rivoluzione bolscevica.[/caption] Nel 1916, nel pieno della Prima guerra mondiale, Gran Bretagna e Francia, rappresentate rispettivamente da i funzionari Mark Sykes e François Georges-Picot, stilarono un accordo per la definizione dei nuovi confini del Medio Oriente, in previsione del crollo dell’impero Ottomano. Dalle ceneri di quell’impero nacquero tutti gli Stati arabi della regione e l’Iran, erede dell’impero Persiano, vide implicitamente riconosciuti i propri confini. Quell’accordo, che è durato esattamente un secolo, viene oggi ridefinito, non in termini di cambiamento dei confini, ma per quanto riguarda le sfere di influenza. L’enorme differenza è che stavolta è la Russia del nuovo zar Putin ad essere il coordinatore dell’accordo. La caduta della città di Aleppo, dopo i bombardamenti feroci dell’aviazione russa e siriana, che hanno causato decine di migliaia di vittime, segna probabilmente il punto di non ritorno per la variegata opposizione al Presidente siriano Assad, composta da estremisti sunniti, da forze “democratiche” finanziate dagli Stati Uniti, ma anche dai terroristi dell’Isis e di al-Nusra. Anche le aree controllate dai tagliagole dell’Isis sono sotto assedio e hanno subìto un’erosione del 30% nell’ultimo anno. La Russia è entrata massicciamente nel conflitto in appoggio al dittatore siriano, usando bombardamenti generalizzati che, con la scusa di colpire i terroristi, si sono rivolti principalmente contro i gruppi di ribelli anti Assad, e la sua strategia, sicuramente cinica e brutale, ha colto un successo militare che ne ha fatto il vero dominus dell’area. Questo fatto è stato sancito ufficialmente dalla riunione dei ministri egli Esteri russo, turco e iraniano che si è tenuta a Mosca a fine dicembre per decidere i futuri assetti della Siria, dove non solo erano assenti gli Stati Uniti ma anche gli arabi che, evidentemente, non hanno alcuna voce in capitolo sull’argomento (stendiamo un velo pietoso sulla totale assenza dell’Europa, principale cliente energetico dell’area). Come si è potuti arrivare a questa situazione? Come  è stato possibile che la Russia, un Paese con un PIL simile a quello Italiano, sia riuscito ad egemonizzare un’area tanto importante, non solo dal punto di vista energetico ma perché produttrice ed esportatrice di un terrorismo fanatico che insanguina e ricatta le città europee? Dal punto di vista storico, la Russia zarista appoggiò l’accordo Sykes-Picot perché in quel contesto avrebbe ricavato una sua sfera di influenza, ma a causa dello scoppio della Rivoluzione d’Ottobre si vide tagliata fuori. Putin non sta facendo altro che rivendicare, con grande spregiudicatezza e determinazione, quello che un secolo fa sarebbe spettato alla Russia. Per capire meglio la strategia russa dobbiamo delineare, anche se per sommi capi, la personalità e la storia dell’attuale Presidente.   Lascesa dello zar Come è ben noto, Putin proviene dalle fila dei servizi segreti ed è stato un agente operativo sul campo, addestrato ad eseguire ordini di qualunque tipo senza discutere. Ha quindi la capacità psicologica ed emotiva per fronteggiare situazioni di pericolo, ma anche di dare ordini operativi che comportino l’eliminazione fisica di “nemici” di vario genere. La coraggiosa giornalista Anna Politkovskaya stava scrivendo un articolo sulle torture in Cecenia quando la sera del 7 ottobre 2006 fu assassinata con quattro colpi di una Makarov 9mm.  La stessa sorte è toccata a decine di ex oligarchi, delfini caduti in disgrazia e oppositori. Nessuno ha mai tentato di trovare i veri responsabili e tutti i sospetti si sono sempre fermati sull’uscio di Putin. Il caso più eclatante riguarda però Boris Nemtsov, uno degli oppositori storici del governo e possibile candidato alle elezioni presidenziali, assassinato a colpi di pistola in prossimità del Cremlino il 28 febbraio 2015, monito esplicito a chiunque tentasse di intralciare il cammino del nuovo zar. Dopo essere stato un agente del KGB in Germania, Putin esordisce sulla scena internazionale distruggendo la città cecena di Grozny come Primo Ministro di Boris Eltsin. Arrivato direttamente al potere non fa mistero di voler riaffermare il ruolo di grande potenza della Russia e, con grande abilità, cerca di occupare tutti gli spazi lasciati liberi dalla fallimentare politica dei Presidenti USA Clinton, Bush Jr ed Obama in Medio Oriente e si muove con grande aggressività sullo scacchiere internazionale. Per poter rimanere al potere, deve fare un gioco delle parti con Dmitrij Medvedev, che gli succede come Presidente, mentre lui si acconcia al più modesto ruolo di Primo ministro. Nell’aprile del 2010 il Presidente Medvedev firma con gli USA il nuovo Trattato START per la riduzione delle armi nucleari, che crea un clima positivo tra i due Paesi, nonostante il conflitto russo-georgiano del 2008. Inizia quindi un periodo di ridotte tensioni internazionali che termina bruscamente nel marzo del 2012 con il ritorno di Putin al Cremlino. Il nuovo Presidente è infuriato con gli Stati Uniti perché percepisce l’allargamento ad Est della NATO  come una minaccia diretta alla Russia, che si sente militarmente assediata, e perché ritiene che l’Amministrazione americana abbia cercato di favorire Medvedev nell’ascesa al potere. Osservando obiettivamente la situazione, non si può negare che l’allargamento  della NATO a tutti i Paesi ex sovietici che ne hanno fatto richiesta è stato affrettato ed andava gestito in modo più diplomatico, proprio per non intensificare i timori sull’accerchiamento da parte di Mosca. L’Occidente ha seguito pedissequamente le richieste impaurite di quegli ex satelliti che si sentivano minacciati dalla rinascente potenza militare russa che, in realtà, ha ancora un apparato antiquato che avrebbe bisogno di grandi investimenti non consentiti dall’attuale situazione economica. Il primo scontro esplicito c’è stato con lo schieramento di missili antimissile in Polonia a cui Putin risponde posizionando nell’enclave russa di Kaliningrad missili Iskander puntati contro l’Europa. Questa mossa impaurisce ulteriormente la Polonia ed i Paesi baltici ai cui timori la NATO risponde varando una forza di intervento rapido che dovrebbe avere un effetto dissuasivo verso eventuali velleità aggressive russe. Il conflitto aperto scoppia nel 2014, con l’annessione russa della Crimea, una regione appartenente all’Ucraina, dopo un referendum plebiscitario fasullo. Ma Putin non si ferma con l’annessione ed invia militari russi senza insegne nella parte orientale dell’Ucraina per dar man forte ai ribelli filo russi che puntano a dichiarare indipendente tutta la regione orientale che vorrebbero porre sotto l’ala russa. L’Occidente ha reagito a questa politica espansionistica con pesanti sanzioni economiche che sono tuttora in vigore, ma che non sono riuscite a cambiare le carte in tavola, visto che la situazione ucraina è ancora irrisolta e Mosca, di fronte alla sostanziale inerzia degli Stati Uniti e dell’Europa, non ha nessuna intenzione di cambiare atteggiamento. Putin sta anche usando in modo spregiudicato l’arma energetica e fa balenare agli europei i grandi vantaggi che si potrebbero ottenere dagli idrocarburi russi, cercando di dividere il fronte degli oppositori, tutti tentati dai possibili vantaggi energetici, nel caso si chiudessero gli occhi sulla politica aggressiva della Russia. Per queste ragioni non si può essere troppo ottimisti su una prossima soluzione della crisi ucraina che, in ogni caso, non potrebbe entrare nella NATO perché, con le sue notevoli dimensioni territoriali, potrebbe essere percepita come una diretta minaccia militare verso la Russia. In questo contesto, l’Europa potrebbe giocare un ruolo fondamentale per svelenire le tensioni nell’area, ma si sta rivelando semplicemente un’espressione geografica, come diceva dell’Italia il principe di Metternich. E questo non può far altro che rinforzare l’aggressività di Putin. [caption id="attachment_8089" align="aligncenter" width="520"]MPK1-426_Sykes_Picot_Agreement_Map_signed_8_May_1916 Mappa originale dell’accordo allegata alla lettera del diplomatico francese Paul Cambon all’allora ministro degli Esteri britannico Sir Edward Grey.[/caption] La triplice intesa Russia, Iran, Turchia L’annessione della Crimea, una gravissima violazione della legge internazionale,  non è stato un grande e sofisticato lavoro strategico ma una brutale operazione militare che ha funzionato perché nessuno ha avuto il coraggio di contrastarla in modo efficace. In Medio Oriente, invece, Putin si è mosso con grande accortezza e determinazione riuscendo a cogliere dei successi che sarebbero stati impensabili soltanto pochi mesi fa. E’ intervenuto in modo spregiudicato in Siria, dilaniata da una guerra civile che vede contrapposti i sunniti sostenuti dall’Arabia Saudita che si ribellano alla dittatura degli Assad, che appartengono alla setta sciita minoritaria degli alawiti, sostenuta dall’Iran che intende estendere sulla Siria ed il Libano la propria sfera di influenza. Putin è riuscito a stringere un’alleanza con l’Iran degli ayatollah che, nel luglio del 2015, avevano firmato l’accordo sul nucleare con gli USA, ottenendo in cambio l’alleggerimento delle sanzioni internazionali ed il ritorno sul mercato petrolifero, vitale per l’economia interna che era stata prostrata dal lungo embargo imposto al Paese per il tentativo di mettere a punto un proprio armamento nucleare. Il 30 settembre dello stesso anno, la Russia interviene massicciamente con la propria aviazione in Siria, cambiando i rapporti militari sul campo e quindi l’Iran trova in Putin un nuovo protettore nucleare. In Siria la Russia e l’Iran sono stretti alleati perché hanno interessi convergenti, tanto da aver creato un comando militare congiunto. L’Iran sciita vuole consolidare la sua presenza nel Paese, mentre la Russia ha qui due importantissime basi, quella aerea di Latakia e quella navale di Tartus, da cui la flotta può operare su tutto il Mediterraneo consentendo alla Russia  una proiezione globale che prima era impensabile. Un secondo fattore è rappresentato dal reciproco interesse ad un aumento del prezzo del petrolio, sempre bloccato dall’Arabia Saudita, il massimo produttore mondiale che fino a pochissimo tempo fa aveva rinunciato a qualunque diminuzione della produzione per far salire il prezzo del petrolio, proprio per colpire le economie di Russia ed Iran tenendo basso il prezzo del greggio. Ma l’Arabia Saudita è oggi in grandi difficoltà: la feroce e fallimentare guerra condotta in Yemen contro i ribelli sciiti huthi, sostenuti dall’Iran, ha comportato costi elevatissimi senza nessun successo militare sul campo, mentre le varie sconfitte subite in Siria ed Iraq dall’Isis, ampiamente foraggiato proprio da sauditi e qatarioti, ha ulteriormente ridotto lo spazio di manovra dei Paesi del Golfo. Per la prima volta, l’Arabia Saudita si è trovata in difficoltà finanziarie ed è stata costretta a prendere in considerazione un incremento del prezzo del petrolio per aumentare le entrate nelle sue casse esangui. Un segnale importante in questa direzione si è avuto al World Energy Congress che si è tenuto ad Istanbul il 10 ottobre del 2016, quando sia Putin che Amin Nasser, il presidente della potente compagnia petrolifera saudita Aramco, hanno sostenuto all’unisono che se le quotazioni del petrolio non saliranno mancheranno gli investimenti nel settore e nei prossimi anni ci sarà uno shock da approvvigionamenti. Alla riunione Opec, l’organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, tenutasi a Vienna il 30 novembre dello scorso anno, l’Arabia Saudita non ha messo il veto e quindi è stato deciso di tagliare la produzione di 1,2 milioni di barili al giorno. Dopo questo annuncio, il prezzo del petrolio ha subito fatto un balzo all’insù. Ma la Russia, che ha visto aumentare le proprie entrate petrolifere, ha saputo sfruttare al meglio anche le ossessioni securitarie della Turchia, in enormi difficoltà di fronte al fallimento della politica neo-ottomana di Erdogan, che è passato dal sostegno aperto all’Isis ad una politica di intervento militare contro il Califfato nero in Siria. In questo cambiamento radicale di Erdogan non dobbiamo però vedere valutazioni etiche di lotta al terrorismo islamista, ma solo il cinico calcolo di acquisire, con il tacito assenso russo,  uno spazio operativo nel nord della Siria per impedire che i curdi siriani inizino a creare una loro entità che, in un prossimo futuro, potrebbe coinvolgere anche i milioni di curdi turchi. Di fronte a questa prospettiva la Turchia, che il 25 novembre del 2015 ha sfiorato lo scontro militare con la Russia dopo l’abbattimento di un caccia Sukhoi, ha ora stretto un’alleanza de facto con quello che un cruciale membro della NATO dovrebbe considerare un nemico. Neppure il brutale assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, ad opera di un poliziotto membro dello stesso partito di Erdogan, ha fatto cambiare la posizione di Putin che ha mantenuto i nervi saldissimi e non ha preso nessuna contromisura, continuando imperturbabile la tessitura della sua strategia, consolidata dall’accordo russo-turco sul gasdotto Turkish Stream. Si è così arrivati alla triplice intesa sancita durante l’incontro di Mosca del 20 dicembre dello scorso anno dove i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia si sono detti pronti a “fornire assistenza nella preparazione di un accordo tra il governo siriano e l’opposizione e a diventarne i garanti”. Nella stessa occasione, i tre ministri si sono espressi a favore del rapido avvio di colloqui tra il governo siriano e l’opposizione che dovrebbero tenersi ad Astana, capitale del Kazakhstan, il prossimo febbraio. In questa situazione di oggettiva debolezza degli Stati Uniti, paralizzati dalla transizione tra la nuova e la vecchia amministrazione, la Russia è diventata il punto di riferimento internazionale per tutto il Medio Oriente e, probabilmente, lo rimarrà anche nell’immediato futuro, visto che il Presidente eletto Trump non ha mai nascosto le sue simpatie e affinità con Putin e, in ogni caso, non ha né le capacità né la competenza per elaborare una contro strategia. Se guardiamo una carta geografica dell’area, il fallimento storico degli Stati Uniti appare ancora più drammatico. Nel 1959 veniva infatti creato in Medio Oriente il Patto Cento con Pakistan, Iran, Iraq e Turchia in funzione anti sovietica. L’Iran è oggi alleato della Russia e considera gli USA un “Grande Satana”, l’Iraq, dopo le centinaia di miliardi di dollari spesi dal Pentagono nella fallimentare campagna irachena, è più fedele a Tehran che a Washington, il Pakistan flirta da sempre con i Talebani per affermare la sua “profondità strategica” in Afghanistan (e non dimentichiamo che Osama bin Laden era nascosto e protetto proprio in Pakistan che, sulla carta è un grande alleato dell’Occidente e del fronte anti-terrorista). La Turchia è diventata un califfato islamico instabile ed ultra repressivo che accusa gli Stati Uniti di ospitare Fethullah Gülen, l’ex alleato ora diventato la bestia nera di Erdogan, e stringe accordi col “nemico” russo che tagliano fuori l’America. Il quadro è veramente complesso e preoccupante perché se gli USA possono contare sullo shale gas, l’Europa non può fare a meno del petrolio russo e mediorientale ed è quindi molto più fragile da un punto di vista economico.   Un gigante dai piedi di argilla C’è pero un aspetto fondamentale che può mettere a repentaglio la aggressiva strategia di Putin e cioè la sostanziale debolezza economica della Russia che si è riguadagnata un grande spazio internazionale, principalmente perché nessuna potenza ha avuto la determinazione di contrastarne le mosse, un po’ come  successe agli Stati Uniti dopo il crollo del comunismo sovietico a partire dal 1992. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che gli idrocarburi rappresentano circa il 70% delle esportazioni russe (50% petrolio e 20% gas) e più del 30% del PIL, che le infrastrutture sono arretrate e obsolete e che il grosso delle strutture industriali è nelle mani di pochi magnati asserviti al potere putiniano. Per capire meglio quanto sia fragile l’economia russa basta ricordare che il suo bilancio pluriennale era stato fatto calcolando un petrolio a 100 dollari al barile, mentre oggi viaggia alla metà e, anche se in lieve crescita, il prezzo non potrà ritornare ai vecchi valori tanto presto. A questo dobbiamo aggiungere che mentre ai tempi d’oro i petrolieri russi incassavano 11 dollari al barile, al netto delle spese di trasporto ed estrazione, oggi la cifra è scesa ad appena tre dollari e questo non consente i nuovi investimenti necessari per migliorare la produttività. Per questa ragione, anche i vantaggi dell’aumento del greggio, dovuto al recente accordo Opec, saranno vanificati dal crollo dell’estrazione. Un altro segnale molto preoccupante per Zar Vladimir è che diversi investitori iniziano a fuggire dal mercato russo, come ha fatto la Vitol, una delle più grandi società mondiali di trading di materie prime con sede in Svizzera. Queste grandi debolezze non possono certo essere risolte dalla APT 28, nome dell’organizzazione (nota anche come Pawn Storm, Sofacy, Fancy Bear) a cui appartengono i migliori hacker russi che, su ordine di Vladimir Putin, hanno interferito pesantemente sulle elezioni americane, come comprovato da un recente rapporto della CIA. La Russia non possiede quella solida base economica che le permetterebbe di sostenere la sua politica militare sul lungo termine ed è un vero e proprio gigante dai piedi d’argilla. Questo non dovrebbe però rallegrarci poiché una nuova crisi economica potrebbe spingere l’uomo forte del Cremlino verso una politica ancora più avventurista che rischia di innescare uno scontro i cui esiti sono al momento imprevedibili. Non siamo, infatti, di fronte alla vecchia contrapposizione Est-Ovest, quando i campi di appartenenza e le linee di demarcazione erano chiari e fissi. Oggi, come ha scritto Alberto Negri sul Sole 24 Ore del 9 ottobre 2016, “siamo in uno scenario di guerra fredda ma con la presenza di attori incontrollabili e ambiziosi, di Stati in disgregazione e gruppi terroristici radicali che tendono a trasformarsi in pezzi di guerra mondiale”. A causa della politica di Erdogan, lo stesso pilastro orientale della NATO è scivolato dallo status di Paese aspirante ad entrare in Europa ad uno Stato mediorientale pericolosamente instabile e scosso da conflitti sanguinosi. Lo sgretolamento di grandi potenze porta inevitabilmente a tensioni e, potenzialmente, a guerre con effetti imprevedibili. E l’Europa cosa fa? Pensa ancora di starsene alla finestra di fronte a questi sviluppi drammatici?   [caption id="attachment_8087" align="alignright" width="780"]Russian Foreign Minister Sergei Lavrov (R) and his Iranian counterpart Mohammad Javad Zarif enter a hall during a meeting in Moscow, Russia, October 28, 2016. REUTERS/Sergei Karpukhin Il ministro degli Esteri iraniano Zarif incontra la controparte russa Lavrov il 28 ottobre 2016.[/caption] [caption id="attachment_8086" align="alignright" width="620"]Russian Foreign Minister Sergei Lavrov (R) and his Turkish counterpart Mevlut Cavusoglu arrive for their meeting in Moscow on December 20, 2016. A Turkish policeman crying "Aleppo" and "Allahu Akbar" shot dead Russia's ambassador to Turkey in Ankara on December 19, prompting a vow from President Vladimir Putin to step up the fight against "terrorism." / AFP PHOTO / Natalia KOLESNIKOVA La faccia tesa del ministro degli Esteri turco Cavusoglu nell’incontro a Mosca con l’omologo Lavrov il 20 dicembre 2016 per discutere il futuro della Siria.[/caption]  ]]>

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