Taranto, un'altra città. I grandi eventi e la sfida dell'abitare

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di Angelo Campo

Le città si trasformano: variano le modalità, i soggetti che promuovono i cambiamenti, le loro intenzioni, le tecniche utilizzate, gli esiti che vengono conseguiti. Inoltre ogni trasformazione, al di là dell’aspetto concreto, è il risultato di tradizioni, storia, culture, immagini all’interno delle quali le mutazioni della forma della città hanno preso forma.

La Concattedrale Gran Madre di Dio costruita su progetto di Gio Ponti, inaugurata nel 1970.

La città è spazio economico, politico, luogo di conflitti, teatro di vecchi e nuovi squilibri, ma anche spazio culturale, simbolo e nello stesso tempo creatrice di simboli e di culture.

Considerata nella sua dimensione spaziale e sociale, la città, pur costituendo un oggetto di ricerca di difficile definizione, rappresenta un luogo di osservazione privilegiato dal quale è possibile osservare le interessanti dinamiche delle società attuali.

Taranto oggi aspira a essere, o è già, un’altra città. Ma rispetto a quale?

La colonia spartana, capitale della Magna Grecia che pare fosse arrivata ad avere circa duecentomila abitanti nel periodo di massimo splendore (grosso modo la popolazione attuale), diventò un’altra città una volta inglobata nell’impero romano, perdendo gran parte della memoria di quel che fu per quasi mezzo millennio, sostituendo la propria identità, la cultura e perfino l’idioma. Un appiattimento e una omologazione che la rese lontana colonia di uno Stato centrale nel quale si chiamavano con altro nome gli dei ed i governanti.

La capitale dell’omonimo principato nato con Boemondo all’inizio del sec. XII, dopo Raimondello e Giovanni Antonio Orsini del Balzo, fu incamerata nel demanio del regno di Ferrante d’Aragona nel 1465. Quest’ultimo andò nella direzione di una vera e propria operazione di cancellazione del principato di Taranto. Un nuovo processo di sostituzione che portò a un’altra Taranto, con diversi tarentini certamente.

Gli effetti dell’Unità d’Italia e il processo di costruzione di un nuovo ordine statale determinarono, quattro secoli dopo, nuove profonde trasformazioni. La realizzazione dell’Arsenale Militare fece partire un processo di reinterpretazione della città che, nel giro di 20 anni raddoppiò la sua popolazione. Chi erano i nuovi tarantini? Da dove venivano? Quale cultura e quali aspettative portavano con sé?

Arsenale di Taranto. Foto Sagittarius/ Wikimedia

Il trend di crescita demografica avviato alla fine dell’Ottocento ha subito nuovi impulsi e diverse sollecitazioni, per l’ultima volta nella seconda metà del secolo scorso con la realizzazione della grande industria siderurgica e del porto mercantile. Taranto ha proseguito nel cambiamento con nuovi cittadini in cerca di una più chiara identità. Si passò dai circa trentamila abitanti dell’ultimo ventennio dell’Ottocento (la costruzione dell’Arsenale Marittimo Militare cominciò nel 1883 e la sua inaugurazione avvenne il 21 agosto del 1889), a quasi duecentodiecimila nei primi anni di produzione degli impianti siderurgici dopo pochi anni dalla loro inaugurazione avvenuta nel 1965.

Edificio del centro storico su lungomare Vittorio Emanuele II (detto ringhiera)

La necessità di ripensare la città, la fortissima domanda abitativa, l’allucinazione dell’inarrestabile crescita, portarono a operazioni discutibili alle quali, dopo oltre cinquant’anni, non si riesce ancora a porre rimedio. Si tratta dell’idea di disgregazione della città in una visione policentrica (la nascita del quartiere Paolo VI è del 1966, il Piano Regolatore Generale ancora vigente, salvo varianti, è del 1974), del tentativo di deportare in altro luogo gli abitanti del centro antico (il trasferimento forzoso, in parte, avvenne dopo i crolli del 1975) con il progetto di un’acquisizione generalizzata dell’intera isola al patrimonio culturale e della sua trasformazione, previo risanamento in altro polo, in altro centro, in altra città. Il progetto di risanamento (Piano Particolareggiato per il risanamento e il restauro conservativo della città di Taranto dell’architetto Franco Blandino del 1969) prevedeva di portare i quindicimila abitanti del centro antico a 6500 dopo l’attuazione del Piano.

Dopo anni di discussioni e tavole rotonde, oggi Taranto sembra essere davanti a un’altra fase di trasformazione attraverso una nuova e diversa intenzione di interpretazione del territorio. Il tentativo in corso pare quello di un cambio di rotta verso la nuova industria, diversamente inquinante, del turismo e degli eventi in un processo che parrebbe in grado di sdoganare il provincialismo e la perifericità in cui Taranto è caduta negli ultimi decenni, a favore di una collocazione all’interno di una nuova geografia. I segnali sono molteplici. Da alcuni anni si tenta la ribalta nazionale e internazionale attraverso autorevoli nomination (la candidatura per l’acquisizione del Borgo antico al Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco nel 2013, per diventare, assieme ai comuni della Grecia Salentina, capitale italiana della cultura per il 2022) o l’acquisizione di grandi eventi in riva allo Jonio (le finali nazionali under 16 di basket nel giugno 2019, la coppa dei campioni di vela nel 2020, il Medimex del 2018, 2019 e 2020, i giochi del Mediterraneo del 2026).

Vista del porto mercantile e dell’area industriale dal lungomare Vittorio Emanuele II

Fallito il progetto “per Taranto nell’Unesco”, teso, sostanzialmente, alla tutela del patrimonio esistente materiale ed immateriale del centro storico e della città, come in preda a una isteria progettuale, per la stessa isola, oggi si tenta la costruzione di nuovi scenari urbani attraverso la realizzazione di concorsi internazionali di idee, come “Open Taranto” per la Città vecchia (promosso da Presidenza del Consiglio dei Ministri, Regione Puglia e Comune di Taranto, e attuato da Invitalia nell’ambito del Contratto Istituzionale di Sviluppo per l’area di Taranto nel 2016, vinto dallo Studio Mate a dicembre 2017) o quello per la “riqualificazione dei paesaggi urbani di Porta Napoli” bandito a fine 2020 dopo una lunga e laboriosa preparazione.

Il processo di trasformazione appare, in questo momento, indirizzato definitivamente verso una nuova idea di città con interventi di grandissimo respiro. L’elencazione sarebbe estremamente lunga, ma si possono citare alcuni importanti progetti. Il nuovo terminal passeggeri del molo San Cataldo, pensato dall’architetto professor Rosario Pavia, vincitore di un concorso di progettazione bandito nel 2008, non ancora completato ma già con un gestore di rilievo internazionale (la Global Port Holding) che ne segnerà le sorti per i prossimi 20 anni. Altri bandi in fase attuativa sono i concorsi per la riqualificazione di piazza Fontana e di piazza Castello, le idee per il nuovo volto del waterfront della città vecchia, la cessione di beni immobili comunali del centro antico a 1 euro in cambio dell’innesco di fenomeni rigenerativi nel segno della sostenibilità. Esiste, poi, un dibattito da alcuni anni sulle prospettive di riqualificazione di altre parti importanti della città: il palazzo dell’ex Banca d’Italia trasformata, forse un po’ frettolosamente, in nuova sede per la neonata facoltà di medicina; l’isola di San Paolo e le aree da sdemanializzare della Marina Militare che aprono prospettive diverse ed entusiasmanti.

Il caso Taranto è pronto ad esplodere. Questa volta pare in senso positivo. La prossima deadline è quella rappresentata dai XX Giochi del Mediterraneo che si disputeranno a Taranto dal 13 al 22 giugno 2026.

Il riverbero delle trasformazioni in corso o in programma viaggia sui giusti canali. Tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 2020 presso il rinato teatro Fusco si è svolto il Festival dello Sviluppo Sostenibile, nel quale l’Amministrazione, accanto al co-organizzatore dell’evento Centro di Cultura per lo SviluppoG. Lazzati”, al mondo accademico, alcuni illustri ospiti e rappresentativi portatori di interesse, hanno discusso su il fenomeno urbano e la complessità. All’inizio di novembre il sindaco Melucci è stato invitato a parlare della sua Taranto e dei grandi progetti che sta governando al DomusForum 2020 di Milano accanto ad architetti e personalità politiche di primo piano del panorama internazionale.

La baia del Mar Grande vista dal centro storico

Capiterà sempre più spesso che l’Amministrazione partecipi a questa modalità di comunicazione in importanti e mediatici parterre. È già accaduto, ad esempio, a Pascual Maragall (sindaco di Barcellona dal 1982 al 1997 che ha promosso e amministrato le Olimpiadi del 1992 ed il Forum Universale delle Culture del 2004, ma, soprattutto le trasformazioni connesse agli eventi o di contorno a questi), o Sergio Chiamparino (sindaco di Torino nel periodo dei Giochi invernali del 2006 e delle Celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia del 2011).

Il percorso che sembrerebbe avere intrapreso la sfera politica e decisionale, va nella direzione già sperimentata da altre importanti realtà europee come, appunto, Barcellona (Olimpiadi 1992 – Forum 2004), Genova (Expo 1992 – celebrazioni colombiane e del G8 del 2001), Torino (Olimpiadi invernali 2006 e 150 Unità d’Italia 2011), Milano (Expo 2015 – Olimpiadi invernali 2026).

La politica del grande evento, operazione di marketing territoriale, spesso paradossalmente profondamente slegata dal contesto, è stato dimostrato che nelle realtà sopra citate ha costituito frequentemente il trampolino di lancio per il vero cambiamento avvenuto solo dopo la conclusione dell’evento. Il post-evento, se ben prefigurato, infatti, può essere in grado di dirottare effettivamente il destino della città agganciandola a reti economiche e culturali transnazionali.

Maragall con gli eventi della sua Barcellona ha cercato un’interlocuzione internazionale con il mondo economico, riuscendo così a relativizzare la “forzata” appartenenza della Catalogna alla Spagna. Genova e Torino, come Taranto, hanno cercato una exit strategy rispetto alla connotazione fortemente industriale in un’ottica di prefigurazione post-industriale (transizione economica come definita dal Piano Strategico della città dei due mari). Ma la città dei cittadini quale ruolo ha in questo processo di “effimero rinnovamento”, qual è, se esiste, il prezzo da pagare?

Taranto un suo “grande evento”, in effetti, da qualche anno lo aveva già trovato. Questo, seppur autoprodotto, homemade (come va di moda dire in questi anni) ha raggiunto un grande eco mediatico ed un riconoscimento a livello nazionale. Il festival musicale del primo maggio organizzato “dal basso” dal Comitato Cittadini e lavoratori liberi e pensanti e da artisti locali e nazionali si propone di reagire in maniera pacifica e partecipativa alla immagine negativa che l’Ilva ha regalato nel tempo alla città, nel tentativo di risvegliare una coscienza ambientale, civica e comunitaria. Il concerto, nato nel 2013, ha avuto decine di migliaia di spettatori per ogni edizione, entrando nei circuiti mediatici e televisivi delle reti nazionali come contraltare, dello storico concerto di Roma a Piazza San Giovanni.

Negli ultimi dieci anni, i temi dell’ambiente e della tutela per la salute, identificando un nemico evidente nell’Ilva, sono stati in grado di unire tutti gli abitanti della città. Le urla disperate sollevate dai tarantini hanno raggiunto l’intera nazione ottenendo il risultato di una grande partecipazione empatica alla problematica locale, ma, parallelamente, saldando indissolubilmente l’immagine dell’intero territorio ionico all’inquinamento ed ai tumori provocati dall’industria siderurgica (vale almeno la pena ricordare l’impegno di Nadia Toffa, la sfortunata giornalista milanese de le iene morta nel 2019, con il forte sostegno personale per Taranto e in particolare per il progetto benefico ie esche pacce pe te!!!, o quello del cantante Niccolò Fabi che con la fondazione Parole di Lulù, creata dopo la morte della figlia Olivia, ha donato alla città un parco per i bambini nel quartiere Tamburi a pochi passi dal plesso Gabelli dell’I.C. Galilei, in una delle aree della città più degradate e compromesse dal punto di vista ambientale).

Per la prima volta, a Taranto, migliaia di persone hanno più volte manifestato assieme, portando avanti un messaggio univoco nel quale si sono identificate.

Certo, in una Taranto divenuta industriale almeno contemporaneamente all’essere diventata città, è stata evidentemente compiuta una necessaria e consistente semplificazione, identificando un male ma accantonando il sistema di metastasi generato da 50 anni di scelte pesanti che hanno coinvolto e irrimediabilmente segnato l’intero territorio non solo con la fabbrica dell’acciaio, ma anche con il grande cementificio, la grande raffineria, il grande porto, il grande arsenale, le grandi basi della Marina Militare, la grande città, appunto.

Particolare di un angolo di un palazzo del centro storico sulla “ringhiera”

Ma in questi anni è successo qualcosa di difficile da comprendere per chi non conosce Taranto e la sua storia, per chi pensa che la città abbia avuto ininterrottamente e costantemente dal 500 a.C al secondo millennio dopo Cristo duecentomila abitanti. La gente che ha manifestato e che si è unita aveva origini diverse, estrazioni culturali, idiomi e tradizioni differenti. Nella migliore delle ipotesi i quasi duecentomila abitanti di oggi, sono tarantini da due o tre generazioni. Certamente nessuno di loro ha nel DNA delle tracce del patrimonio genetico dei primi coloni spartani o dei cortigiani del principe di Taranto.

La nascita non definisce l’identità”, diceva Maragall al sindaco di Pescara nel 2007 alla vigilia dei suoi Giochi del Mediterraneo del 2009.

Attraverso il rito catartico della legittima protesta verso un male comune ed evidente, è scattato quel senso di appropriazione per la propria terra e di tutela per la propria esistenza, che ha generato, dopo un fenomeno di immigrazione quasi ininterrotto iniziato alla fine dell’Ottocento, finalmente una città fatta da cittadini.

La città è, come afferma Simmel, un “fatto sociologico che si forma spazialmente” (la sociologia urbana è caratterizzata da una nuova e complessa domanda di conoscenza che è a sua volta espressione di una nuova domanda di città). L’intento non è certamente quello di mitizzare una fase storica, ma di mettere in evidenza un segnale che, a mio avviso, rappresenta un punto di inizio, un anno zero.

Dunque, oggi, anche grazie a questo tipo di fenomeno di protesta, è possibile pensare a Taranto come un “luogo” per i propri cittadini.

La possibilità di ragionare su una città come un posto abitato dai cittadini e non, semplicemente, come palcoscenico per gli eventi, consentirebbe di pensare dei luoghi, degli spazi, che siano animati e fruiti da persone e non concepiti come dei “vassoi” sui quali accogliere turisti e selfisti di passaggio.

Lo spazio urbano, dunque, diventerebbe il tema centrale attorno al quale ricostruire la città Lo spazio è in quanto luogo, elemento importante nella formazione delle identità collettive. Ma la tendenza, per lo meno nel nostro passato prossimo, è stata quella di commutare il concetto di città in quello di territorio, ove lo spazio sparisce o viene estremamente ridimensionato. Il ragionamento sulla città diviene così, astratto, inadatto a rappresentare i rapporti con i contesti locali che subiscono una frantumazione divenendo incomprensibili ed ingestibili. Ecco perché alcune parti della città, anche di quella consolidata, non sono, in effetti, ancora in grado di comprendere quale sia il proprio ruolo nel contesto urbano.

Ciò che questi frammenti urbani non hanno in comune non è una governance condivisa o lo stesso tipo e qualità di servizi, ma la presenza di una unica e riconoscibile identità collettiva.

Secondo l’ipotesi della despazializzazione della società contemporanea, globalizzazione e sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione avrebbero dovuto affrancare la società dai vincoli e dagli attriti spaziali. In questa logica la rete, il web, diventa l’icona di un mondo in cui interazioni ed aggregazioni sarebbero avvenute secondo logiche indifferenti alla distanza e al dove. Gruppi, comunità e identità si sarebbero formate secondo principi di affinità aspaziali. I nuovi localismi e il fiorire di identità collegate ai luoghi sono stati in un primo momento considerati contraddittori rispetto alla despazializzazione. In realtà sono il segnale che il modello non funziona tout court. Lo spazio urbano vuol dire relazioni e queste aiutano a consolidare una identità. In mancanza di identità collettiva e relazioni sociali, la città resta solo un fatto amministrativo.

Certamente oggi a Taranto si avverte una sensibilità nuova che, anche con l’aiuto delle attuali legislazioni in vigore a livello nazionale e regionale, sembrerebbe indirizzata a recepire le istanze della popolazione, a sintonizzarsi con gli abitanti del luogo urbano.

La costituzione dell’Urban Transition Center – Ecosistema Taranto, la cui composizione è stata ufficializzata nel novembre 2020, ad esempio, dovrebbe facilitare la “partecipazione e condivisione fra gli attori istituzionali, sociali, economici e culturali per un sempre maggiore coinvolgimento nei processi decisionali” (fonte: Comune di Taranto) in attuazione a quanto pensato nel nuovo DPP (Documento Programmatico Pluriennale) e secondo i quattro indirizzi strategici da questo individuati (Accessibilità e connessione, cultura dell’abitare, innovazione di processo e Spazio alla comunità). Un pezzo del percorso verso il nuovo piano strategico Taranto città resiliente 2030 e in attuazione di Taranto futuro prossimo, attivato con la Legge regionale n.2 del 2018 che definirebbe la transizione economica della città.

Corso due mari, ponte girevole, lungomare di Taranto

Ma c’è un pericolo insidioso e latente, difficile da individuare se contagiati dall’entusiasmo del rinnovamento: che il fragile e delicato percorso partecipativo si trovi ad un layer, uno strato, diverso da quello delle decisioni legate alle grandi trasformazioni urbane, ai grandi eventi, al marketing territoriale che porterà, inevitabilmente e finalmente, importanti investitori e nuove opportunità.

Il rischio è che i vari layer attivati si adagino uno sull’altro sfiorandosi senza toccarsi. Potrebbe così accadere di accorgerci, fra qualche anno, che il percorso di partecipazione sia stato post decisionale o del tutto ininfluente. Questo porterebbe ad avere un incerto riconoscimento della propria città da parte dei suoi cittadini. Quella patinata, comunicata all’esterno, diverrebbe, così, solo una delle molteplici facce di una città che, nel suo intimo, resterebbe profondamente diversa e divisa, poco solidale ed incapace di generare felicità. Una tra tante città contemporaneamente insediate in un identico luogo e nello stesso momento ma meno rappresentativa delle altre della comunità urbana fatta di uomini e di vite.

Quante Taranto ci saranno il 23 giugno 2026?

(dove non altrimenti indicato le foto sono di Angelo Campo)

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