Di Cesare Cavalleri e Stefano Graziosi *

«È stato peggio di un crimine. È stato un errore». Così pare che Talleyrand abbia commentato il rapimento del duca d’Enghien, ordinato da Napoleone: un’affermazione che si attaglia perfettamente al caso di Donald Trump, additato come il principale responsabile dell’irruzione al Campidoglio dello scorso 6 gennaio.

Aizzando i manifestanti poco prima della certificazione della vittoria di Joe Biden al Congresso, il presidente americano ha infatti commesso un grave errore politico.

Un errore che ha messo di fatto a repentaglio la sua eredità presidenziale, il suo rapporto con il Partito repubblicano e – forse soprattutto – il suo stesso futuro politico.

Trump si è, in altre parole, rovinato con le sue stesse mani, consegnandosi di fatto a quegli avversari che non aspettavano altro per azzannarlo e gettare alle ortiche i quattro anni della sua presidenza: quattro anni che, se guardiamo ai risultati concreti, sono stati molto più positivi di come una certa vulgata tenda (spesso tendenziosamente) a dipingerli.

Un’occasione ghiotta per i critici che stanno adesso cercando di far passare la tesi del «trumpismo intrinsecamente autocratico», quasi che i gravi fatti di Washington siano una logica e inesorabile conseguenza degli ultimi quattro anni. È del resto esattamente questa la linea assunta dal Partito democratico che, dopo settimane di richiami (evidentemente non troppo sinceri) all’unità nazionale, ha adesso deciso di seguire la massima che fu di Cesare Previti: «Non faremo prigionieri».

Biden ha già bocciato risolutamente e senz’appello l’intera presidenza del suo predecessore, adombrando l’accusa di nazismo verso i parlamentari che – pur condannando i fatti di Washington – si sono resi «colpevoli» di lealtà al presidente uscente.

La Speaker della Camera, Nancy Pelosi, ha invece invocato direttamente la destituzione di Trump a nemmeno due settimane dalla scadenza del suo mandato: una mossa inutile sul piano concreto ma dal potente valore simbolico.

La strategia dei democratici, insomma, è chiara: gettare il bambino con l’acqua sporca, ricorrendo all’irruzione al Campidoglio (fatto grave, ma che non è certo la Rivoluzione d’ottobre) per delegittimare moralmente il trumpismo e ogni potenziale forma di alternativa politica.

Non sarà del resto un caso che queste prese di posizione da parte dell’asinello siano state pronunciate esattamente negli stessi giorni in cui i big della Silicon Valley – da Facebook a Twitter – stabilivano di sospendere gli account di Trump.

Una scelta giustificata come volta a limitare le violenze, ma che assume in realtà – questa sì – delle connotazioni autenticamente autocratiche. Senza dimenticare poi il conflitto di interessi. Sarà un caso, ma – lo scorso novembre – Politico riportò che molti ex dirigenti di Facebook facciano parte del team di Biden.

Ecco quindi spiegato l’errore politicamente marchiano del presidente uscente: non un improbabile tentativo golpista, ma l’essersi messo all’angolo con le sue stesse mani.

Perché adesso non solo il suo margine di manovra è ridotto al lumicino, ma il problema riguarda l’intera area repubblicana, che si trova davanti a un bivio dirimente: da una parte, l’elefantino può decidere di cedere alla retorica del trumpismo intrinsecamente autocratico, rifugiandosi nel «buon tempo antico» e rendersi così elettoralmente inoffensivo. Dall’altra, può invece decidere di reagire e preservare gli aspetti migliori del trumpismo stesso: anche se questo dovesse comportare, come probabile, l’andare oltre Trump.

Nonostante i limiti, il trumpismo ha apportato infatti nuova linfa a un partito – quello repubblicano – che era finito in crisi di identità e di consensi. Proprio il trumpismo ha infatti consentito all’elefantino di allargare la propria base elettorale alla working class e alle minoranze etniche, inaugurando inoltre una nuova stagione di Realpolitik: una stagione che ha incrementato la stabilizzazione del Medio Oriente e avviato un atteggiamento più assertivo verso la Cina.

Tutto questo, senza dimenticare l’impegno antiabortista e – almeno fino allo scoppio della pandemia – i buoni risultati sull’occupazione.

Un’eredità che ha portato i repubblicani a crescere: un’eredità che, proprio per questo, i democratici vogliono adesso censurare, bollandola in toto con la lettera scarlatta del golpismo. La censura è del resto un’arma politica potente, ma anche rischiosa. Certi meccanismi, una volta messi in moto, possono condurre a esiti imprevedibili.

Biden dovrebbe quindi tenere a mente la massima di Vergniaud, perché, sì, «la rivoluzione è come Saturno: divora i suoi figli».

 * Tratto dal mensile Studi Cattolici n. 719, gennaio 2020

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