Sulla bellezza, il segno e il simbolo

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Stefano Mavilio

Segno non è simbolo. Il segno non ha a che fare con l’estetica, il simbolo si ma a certe condizioni.

Premesso che l’estetica è di pertinenza di ciò che ricade sotto il dominio dei sensi (è anestetico, infatti, il farmaco che ci priva del portato dei sensi), il simbolo non crea il fenomeno estetico semmai lo alimenta, così come l’allegoria, che agisce ad un livello più basso. Il simbolo relaziona con il mondo delle idee; il segno relaziona con il mondo sensibile. La croce di Cristo non è la croce dell’ospedale, così come la scala dei pompieri non è la Scala Cabalistica.

Come che sia, l’aver sostituito alla logica del simbolo la logica del segno, ha prodotto i danni immani che sono sotto gli occhi di tutti: il simbolo infatti, relazionandoci con il Mondo di Mezzo, non è menzognero, perché riferisce alle Idee ed agli Angeli corrispondenti, secondo l’insegnamento di Sohrawardi.

Il segno – di contro – è mendace e fallace: una croce ospedaliera non garantisce la guarigione, tantomeno la presenza di personale esperto, mentre la croce di Cristo garantisce la vita eterna – a chi ci creda – alla quale corrisponde un considerevole grado di bellezza.

Paradossale dunque che l’estetica in quanto disciplina sia figlia del Modernismo; come se l’estetica potesse essere nel governo della ragione e della scienza. L’unica scienza che aveva governo del bello era la cosiddetta Scienza Sacra, per la quale ogni atto delle umane genti era pregno di significato. Fu liquidata come Magia dagli ipocriti del commercio. Che senso ha decidere a tavolino il prezzo di un Modigliani solo per soddisfare le brame di qualche investitore giapponese, a disdoro dei giapponesi tutti, per i quali il bello fu magico e non commerciabile, come sapevano bene le Dame che scrivevano ai loro amati della bellezza del mandorlo in fiore?

Jean Nouvel, Torre Agbar a Barcelona. Foto Axelv/Wikimedia

Per rimanere nello specifico dell’architettura, una “architettura segno” non può avere pretesa di bello; con il che si segnala anche la pretesa ingenua di tutti coloro che fattisi artisti durante l’ultima mezz’ora, pretendono di accreditare le loro opere quali “opere d’arte” o semplicemente “belle”, solo perché da loro affermato. Un grattacielo che sembri una supposta è una supposta, che tu lo costruisca a Londra o a Barcellona; una scultura in forma di dito medio che guarda il cielo, intendendo un insulto alla maniera anglosassone, altri non è che un insulto alla maniera anglosassone, con buona pace di coloro che le passeranno davanti ogni dì, inconsapevoli di essere stati truffati.

M. Cattelan, scultura, Piazza Affari, Milano. Foto Simone Pellegrini/Unsplash

Se il segno è menzognero non esisterà più la possibilità di avere cognizione del Bello, che – con grande rammarico degli ingenui – ha ancora a che fare con il Vero. Chi volesse saper davvero perché l’architettura contemporanea non è più in grado di accedere al bello, rilegga Plotino, Koomaraswami e magari Le Corbusier e la sua poetica dello “spazio indicibile”. Oppure si affidi alle parole di Derrida, per anni indicato quale Vate del decostruttivismo, che arrivò ad affermare che dei suoi amici architetti, nessuno lo aveva inteso davvero( e lo disse con parole certamente meno lusinghiere).

Tutti quelli infine che dovessero credere che l’Illuminismo ci abbia illuminati, sol perché ha fatto piazza pulita delle superstizioni, consegnandoci un mondo di certezze (!) che sono solo quelle sperimentabili e riproducibili in laboratorio, ricordino che altri Orienti hanno illuminato il mondo ed altre Scienze lo hanno illuminato ma non perché autoreferenziali. Il fatto che una volta per diventare Architetto fosse necessario il praticantato presso un Maestro (praticantato che poteva durare anni), mentre oggi sono sufficienti 180 crediti formativi (per una laurea Breve), la dice lunga sulle ipotesi relative al bello. Noi architetti siamo i nuovi geometri ai quali per anni -scusiamoci- sono state attribuite tutte le nefandezze del costruire. Se ne conservi invece memoria per la loro professionalità “costruttiva”.

Facciano contemporaneamente autocritica i colleghi del “famolo strano” giacché lo strano è segno, giammai diventerà simbolo. Famolo strano è figlio del dia-bolòn, che moltiplica l’orrore delle cose inutili, secondo dice Confucio, replicando meccanicamente l’archetipo del molteplice; quello -per intenderci- che fece del mulino di Amleto da macina dell’età dell’oro, a macina dei sassi sul fondo del mare in tempi recenti. Lo Skamba fu distrutto dalla protervia dei fessi. Per tutti coloro che praticano il Bello, esso esiste ancora e muove le Sfere Celesti. Nel mondo del “ritocchino” associato al “botulino”, mondo telecomandato dall’Impero dei media e dal Governo dell’immagine, non può esistere alcuna idea di bellezza che non sia truffaldina.

Se per segno intendiamo invece la “cifra” caratteristica di ciascun architetto e di ciascun artista, purché rispettabile, alla luce di quanto detto sopra e pertanto escludendo dal numero i disegnatori di cornicette su quadernetti neri, tanto di moda fra certi cosiddetti intellettuali, la questione si pone nel campo dello “stile”, del “carattere” e della modalità di rappresentazione dell’idea, tanto diversa da una “mano” all’altra.

Erich Mendelsohn, Schizzi di Edifici, 1916

Rammento per i meno giovani due diversi “stili” che a noi adulti fecero sognare: i segni tremolanti di Corbù, fatti di tante piccole linee che si rincorrono e che tutte insieme delineano una figura (si legga Wogenscky); e il bel tratto elegante di Mendelsohn, che invece tirava le linee tutte di un fiato alla maniera degli ideogrammi giapponesi, fino ad ottenere una rappresentazione trasognata, come è giusto che sia lo schizzo. Due diverse modalità di rappresentare l’idea: a tratti brevi e tutto d’un fiato; e in un caso come nell’altro -posso solo immaginare – la velocità è pàredra dell’immaginazione: quanto più sarà veloce lo schizzo, nella sua esecuzione, tanto più sarà fedele all’Angelo che gli corrisponde. Un disegno che fosse lento e meditato sarebbe semplicemente segno (si legga anche Kahn, a proposito del “segno”). Sia esso definitivo, esecutivo, prospettico, assonometrico o in semplice proiezione ortogonale, nessun disegno eseguito a riga e squadra (in autocad se vi piace), sarà capace di esprimere una emozione, che a sua volta rimandi all’Altrove, presso il quale risiede l’Idea. A maggior ragione non avrà alcun valore simbolico un foto-render, semplice prefigurazione di un costruito che al costruito si avvicina a tal punto che oggi, con un semplice cellulare ed un paio di occhiali “ad hoc”, pare di essere davvero in presenza -dentro o fuori che sia- di quella architettura.

Le Corbusier, Cappella di Ronchamp, schizzo.

Cosa fa dunque dello schizzo un parente prossimo dell’idea e del render la prefigurazione di un “cadavere”?

(Un edificio che sia già delineato in ogni sua parte ancor prima di essere costruito ed un edificio che fosse costruito così perfettamente da non richiedere aggiustamenti nel tempo, non è infatti un corpo vivo, bensì il soma di ciò che sarebbe potuto essere, la “mummia” che preesiste all’evento finale. Rammento che fino all’800 era prassi abituale completare l’edificio nel corso di una o più vite, per consentire agli utenti, che lo stesso gli venisse cucito addosso come un abito di sartoria, fosse anche una semplice baracca e che le trasformazioni urbanistiche lo ridisegnassero sempre nuovo). La risposta alla precedente domanda è semplice: lo schizzo, come il simbolo e come l’idea, non prefigura, annuncia: è profetico. Nello schizzo, parafrasando Durand, “l’oggetto immaginato è dato immediatamente per ciò che è”. Il segno invece, come anticipazione già completa, prefigura: semplicemente è. Lo schizzo ha il potere di commuovere, il segno non commuove, indica.

C’è una croce, si vada tutti all’ospedale. C’è un crocifisso, pianga la Vergine Maria.”

(E alla protervia di chi sa di sapere sol perché lo ha deciso, preferisco ancora l’accortezza del “so di non sapere”.)

(Articolo già apparso in ArtApp)

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Stefano Mavilio, Architetto, Roma 1957 Vive a Roma dove esercita la libera professione in forma singola e associata. Negli ultimi anni ha maturato esperienza come progettista di spazi per le celebrazioni liturgiche. Tra le realizzazioni si segnalano: la nuova aula detta Sala della Pace nel complesso monumentale di S. Rita a Cascia - 2009; il complesso parrocchiale di S. Bernardino Realino a Lecce - 2013 e il complesso parrocchiale dei SS. Pietro e Paolo a Roma - 2014. Nel 2005, per i tipi della Electa, ha pubblicato la Guida all’architettura sacra di Roma – 1945, 2005; nel 2014, per le edizioni Nuova Phromos di Perugia ha pubblicato L'architettura è una scala - la scala di Giacobbe dell'architettura. È professore a contratto presso la Facoltà di Architettura la Sapienza Roma a far data dall’AA 1999/2000. Nel 2000, per conto della CEI Conferenza Episcopale Italiana, organizza il primo Master in Progettazione di Chiese. È coordinatore didattico e scientifico del Master in progettazione degli edifici per il culto, organizzato dal DIAP Sapienza Roma. A far data dal prossimo A.A. 2018-’19 sarà titolare del corso di Progettazione dello spazio per la liturgia.

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